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Terremoto, la testimonianza del 19enne di Pomezia Mattia Rendina, schiacciato dai detriti

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Fanno commuovere, le parole pronunciate da Mattia Rendina poche ore dopo dal suo ritrovamento sotto le macerie, malridotto ma vivo. Sua mamma, Wilma Piciacchia, purtroppo non ce l’ha fatta.
Mattia, 19enne di Pomezia, racconta in un’intervista al Corriere della Sera quello che è accaduto a Pescara del Tronto nei terribili momenti del terremoto e nelle ore successive, quando si trovava sepolto dai detriti della casa di famiglia dove stava trascorrendo le vacanze.
“Quando il letto mi ha inghiottito, ho pensato: ecco il solito incubo! Invece era tutto vero…”.
Mattia, come ha raccontato al giornalista Goffredo Buccini, non ha mai pianto, nella buca dove stava. Con delicatezza ha ricordato quanto successo. “Ero uscito con gli amici – riporta il Corriere della Sera – sono rientrato verso mezzanotte e mezzo. Mi sono steso sul letto ma non riuscivo a dormire, la mia stanza è al terzo piano del palazzo di mia nonna. Mi sono addormentato all’una e mezzo. Poi, di colpo, apro gli occhi e mi sento risucchiare, mi vedo cadere giù in un rombo di calcinacci. Dal terzo piano mi sono ritrovato in cantina! Ero cosciente. Ed ero stato fortunato, il tetto spiovente mi aveva fatto da capanna: una parte si era incastrata nell’altra e mi aveva protetto, se no adesso non starei qui. Ho pensato, vabbè, ora mi sveglio. Poi, quando ho visto che ero bloccato dalla testa ai piedi e riuscivo a muovere solo i polpastrelli, mi sono detto, no, questa è la realtà. Vuole sapere se ho avuto paura? La paura sale in certi frangenti, è normale. Però ho cercato di usare la testa. Mi sono detto: Mattia, non sprecare energie inutili”.
“Ho provato a sollevarmi – prosegue Mattia nel corso dell’intervista – Ma era come avere una maschera sul volto e una corazza di cemento sul corpo dentro cui non puoi muoverti, come stare nello stagno fuso e raffreddato. Davanti alla faccia avevo lo spazio di una pallina da ping-pong, potevo respirare… ma poco. Dopo un’ora o due ho sentito dei movimenti sopra di me. Era mio zio Sergio, che mi cercava. E poi anche gli altri miei zii, Alfio e Roberto, mi cercavano, mi chiamavano. Sa, quando stai là sotto, ti passa in testa tutto. Io mi sarò progettato settemila vite, là sotto, e insieme non riuscivo a immaginare cosa avrei fatto domani perché pensavo di morire. Ma il pensiero fisso era mia madre”.
Wilma Piciacchia, appunto, che si trovava appena tre stanze dopo quella di suo figlio, ma che non è stata altrettanto fortunata.
“Mia madre – ricostruisce Mattia a Buccini – era intrappolata insieme a me là sotto, in quell’inferno, tre stanze più in là”. Mattia inizia a urlare solo quando sente le voci degli zii che lo cercano. “Zio, aiutami, zio! Non lasciarmi solo!”.
“Era veramente un incubo. Ci hanno messo del tempo, poi hanno spostato un masso, ho visto un po’ di luce. Allora ho gridato ancora: “Zio, eccomi, sono qui!”. Mi hanno trovato con addosso una trave che mi aveva piegato la testa quasi completamente sul petto, perciò porto il collare. Mi hanno scoperto fino al bacino. Poi le gambe. Ma è stata un’odissea. Il lenzuolo mi imprigionava e mi avvolgeva, come pure il materasso, sulla gamba destra: ero legato. La gamba destra era piegata male dal ginocchio. Mi hanno dato un po’ d’acqua. Ero sfinito. Verso le sette e mezzo, le otto di mattina ho gridato: “Ragazzi, non ce la faccio più, lanciatemi un’imbracatura e tiratemi su, quello che viene viene, se le gambe si spezzano non me ne importa! Io non ci voglio più stare qua sotto!”. Beh, hanno tirato, ma le gambe le ho ancora”.
Poi il ragazzo racconta di un particolare. “Mentre scavavano, un ragazzo, uno dei soccorritori, era proprio vicino, tanto vicino a me. C’è stata un’altra scossa. Allora lui mi ha detto “perdonami, Mattia”, ed è saltato fuori dalla buca, via. Io l’ho capito, sa? È umano, sopra avevamo un tetto intero. Poteva uccidere tutti. Dopo la scossa, il ragazzo è tornato e ha ricominciato a scavare. Non mi chieda se l’ho perdonato, non ho nulla da perdonargli, ho da ringraziarlo. Mi hanno tirato fuori, alla fine, con uno strappo, il buco da cui sono uscito non era molto più grande di un cesto di pallacanestro. Ho alzato il pollice in segno di vittoria verso mio padre Filippo e mio fratello Daniele… E ho dato un bacio grande a mio zio, ché se non c’era lui non c’ero più io. La prima notte in ospedale non ho chiuso occhio, la seconda mi hanno dato le gocce… Lo so, vuole sapere se ho pregato… Beh, ho detto tante di quelle bestemmie da perdere il conto, resti tra noi. Ma no, scherzo! Non ho pregato perché in quel momento devi riflettere… sui movimenti da fare per sopravvivere”.
Mattia ora è circondato dall’affetto di parenti e amici, a Pomezia, dove tutta la città continuerà a dargli quella vicinanza di cui ha bisogno per superare questo grave trauma.

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