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Coronavirus e i malati oncologici: le storie di Alessia e Antonella

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L'ospedale e i pazienti giovani ricoverati per epatite acuta
Tra i mille volti dell’emergenza coronavirus ce n’e’ uno, forse il piu’ odioso, che colpisce chi gia’ vive situazioni di vulnerabilita’. Ha il volto delle dolore e delle nuove preoccupazioni delle persone gia’ affette da patologie gravi, costrette a fare accertamenti importanti in
ospedale senza percorsi differenziati o, addirittura, a rimandarli per paura del contagio. È il caso di Antonella, farmacista romana di 52 anni, un carcinoma al seno diagnosticato nel 2018, operata subito al Policlinico Gemelli di Roma con intervento conservativo, seguito da una radioterapia. Ultima mammografia a gennaio, da cui “per fortuna, risulta tutto pulito”.
Antonella a marzo avrebbe dovuto effettuare un controllo ginecologico per verificare lo stato del suo endometrio, che la terapia con il tamoxifene potrebbe intaccare. “È un controllo abbastanza importante perche’ se l’endometrio si ingrossa occorre
intervenire – racconta all’agenzia Dire la donna – Ma ho deciso di temporeggiare e di aspettare che passi la fase piu’ grave dell’emergenza, sia perche’ non voglio andare ad intasare un reparto che puo’ essere utilizzato per casi piu’ urgenti, sia perche’ non voglio frequentare l’ospedale in questo momento”. L’ospedale, luogo di accoglienza per eccellenza, per una paziente oncologica come Antonella sembra oggi poco sicuro. “Chi ha fatto radio o chemioterapia e’ in una fase immunologica depressa, molto delicata – continua la farmacista – Ci sentiamo piu’ esposte e contrarre il virus andando a fare una visita di routine in ospedale. Non e’ un pensiero, ma una realta’”. Per questo “ci sarebbe bisogno di un percorso ad hoc”, propone la donna. Una ‘corsia preferenziale’ che “per me vuol dire: il controllo puoi farlo qui, in tutta sicurezza. E di un oncologo di riferimento, perche’ io l’ho visto solo una volta e devo decidere cosa fare un po’ tutto da me”.
E l’idea di differenziare i percorsi in tutti gli ospedali torna anche nelle parole di Alessia Tuzio, social media manager e copywriter a partita Iva di 33 anni, una risata che illumina anche una conversazione telefonica nonostante una leucemia linfatica acuta diagnosticata a 14 anni e superata a 17, e un papa’ lontano, ammalato di leucemia linfatica cronica da quattro anni. “Sta facendo una terapia di chemio biologica con un nuovo farmaco sperimentale in pasticche, che sta dando ottimi risultati – racconta Alessia alla Dire – Deve fare l’emocromo una volta al mese tassativamente per vedere l’andamento della terapia e per regolare quelle coadiuvanti, con antivirali e cortisonici, e deve fare periodiche visite al policlinico di Tor Vergata, perche’ e’ stato operato da poco e non sono rinviabili”. Per la giovane social media manager, romana d’adozione, “ci vorrebbe un’agenda di appuntamenti pensata ad hoc per le persone che devono per forza recarsi in ospedale e sono in emergenza tutto l’anno, tutti i giorni della loro vita, cercando di mantenere la normalita’ della loro routine medica”. E ancora “dovrebbe essere adottata in via ufficiale una prassi comune, un iter da seguire per tutte le strutture che hanno necessita’ di continuare a mantenere il flusso di pazienti”. Sono 15 le pasticche che ogni giorno il papa’ di Alessia deve inghiottire, in base a una tabella di marcia che dalle 8 della mattina arriva alle 20 di sera, passando per le 11, le 12 e le 17. “Ci sarebbe bisogno anche di dispositivi di sicurezza gratuiti, perche’ mio padre la mascherina non la deve portare solo in questa emergenza, ma sempre. Lui nasconde molto bene quello che prova- racconta ancora Alessia – sicuramente e’ stanco della trafila che sta affrontando e ha il timore che questa situazione possa durare un periodo indefinito. Quanto allo stare a casa, lui gia’ usciva poco prima, ora non esce praticamente piu’. Quanto a me – confessa – se ci penso ho il magone, perche’ quando hai paura per le persone che ami e’ difficile sopravvivere a livello psicologico e ci sono giorni che vorresti stare solo con la testa sotto le coperte, aspettando che passi”. Neanche Alessia esce: “La spesa va a farla il mio compagno”, perche’ “bisogna avere delle accortezze”, aggiunge mentre racconta delle necrosi avascolari che a dieci anni dalla guarigione l’hanno portata a dover frequentare ancora altre camere operatorie, per due interventi: uno di protesi all’anca sinistra, l’altro
all’anca destra, per salvarla. Alessia, nonostante tutto, e’ fiduciosa e grata: “Gli ospedali italiani stanno facendo cio’ che e’ in loro potere fare e di questo devo solo rendere grazie. Perche’ se mio papa’ e’ ancora vivo e io sto parlando ora con te al telefono- sottolinea- e’ perche’ c’e’ un Servizio Sanitario Nazionale che c’e’ e lavora. Io e mio padre ci siamo curati solo nel pubblico, i casi di malasanita’ sono una goccia in un oceano di bene. La realta’ dei fatti e’ che se non ci fosse un sistema che mi garantisse le giuste cure pagando un ticket irrisorio starei come in America, destinata a rimanere zoppa a vita o orfana di padre a 30 anni, che invece sta andando avanti con una terapia che costa quasi 10mila euro al mese, interamente coperti dal Ssn. E allora ricordiamoci dei medici. Ma ricordiamocene tutti i giorni”.
 
Alessia e Antonella hanno trasformato la loro esperienza di vita in impegno: sono volontarie Afron, l’onlus impegnata dal 2010 in Uganda con progetti di prevenzione e cura dei tumori femminili, che si occupa anche dei bambini affetti da linfoma di Burkitt, portando avanti numerosi progetti. L’ultima missione a febbraio, prima che arrivasse anche li’ il Covid19 e che il Paese chiudesse le frontiere. Ma Afron sta gia’ pensando a come aiutare i pazienti oncologici ugandesi, anche con il contributo di donne come Alessia e Antonella, che hanno trasformato la loro esperienza di vita in impegno. (Agenzia Dire)
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