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Lupa capitolina, non solo leggenda: esisteva e ululava a Roma

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La lupa, simbolo e mito di Roma. Ma la città ha avuto per cento anni una vera lupa ai piedi del Campidoglio.

“Er giorno che la Lupa allattò Romolo
nun pensò né a l’onori né a la gloria:
sapeva già che, uscita da la Favola,
l’avrebbero ingabbiata ne la Storia”

Trilussa

Sappiamo benissimo che si tratta di una leggenda. Ma i miti, la maggior parte delle volte, servono alla realtà per creare simboli tangibili al fine di attribuire senso alle cose. La Lupa è per Roma tutto questo; simbolo, senso, significato, icona e feticcio. Va da sé che ci sia sempre stato l’interesse, per la città, a ribadire i concetti sintetizzati nella Lupa. In particolare c’è stato un periodo, durato circa un secolo dal 1872 fino agli anni settanta del ‘900, in cui era costume dell’amministrazione romana, esporre un lupo in carne ed ossa presso una gabbia alle pendici del Colle.

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28 agosto 1872: l’idea del sindaco Pietro Venturi

L’idea di esporre un lupo vero in una gabbia presso il Campidoglio, su via del Teatro Marcello, era venuta per la prima volta nel 1872 all’allora sindaco di Roma Pietro Venturi. Con la delibera numero 52630, il primo cittadino dispose di porre “nel giardino del Campidoglio in un apposito casotto una lupa vivente come emblema di Roma e sia portata nel preventivo del futuro esercizio la spesa del relativo mantenimento in lire 23.50 mensili“. La decisione è frutto del fatto che la città, da meno di due anni capitale dell’Italia unita, cercava di affrancarsi dopo secoli dall’immagine di città della chiesa. Ciò recuperando la sua simbologia intrinseca. Una Roma imperiale, città laica, e la lupa della leggenda era funzionale a questo. Anche se, va detto, la tradizione di esporre animali al Campidoglio non nasce in questo periodo. Nel ‘400, infatti, era uso esporre un esemplare di leone africano, come vanto della Città Eterna. Nel 1414 però, dopo che un malcapitato fu sbranato dall’animale dopo essersi avvicinato troppo alla gabbia, si decise che non fosse più il caso di portare leoni in città.

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“Me pari la lupa der Campidojo”

La lupa in carne ed ossa ai romani piace. Diventa una vera e propria attrazione, ogni giorno sono erano centinaia i cittadini che sostavano dinnanzi alla gabbia per osservare l’animale. Il tempo passa; Roma sopravvive a due guerre mondiali, si dimentica la capitale dello Stato Pontificio e diventa sempre più Capitale d’Italia. Le lupe in gabbia si susseguono, muoiono, e vengono sostituite continuamente con altri esemplari. Tutte in quella angusta gabbia si muovono freneticamente, senza via d’uscita. Avanti e indietro, avanti e indietro; normale per un animale abituato a vivere in ampi spazi e in branco. La cosa non sfugge al romano medio, tanto che il fenomeno assurge a detto, a modo di dire. “Me pari la lupa der Campidojo“, si dice infatti a Roma, per indicare una persona in preda all’ansia, che proprio non riesce a stare ferma.

La lupa, simbolo e mito di Roma. Ma la città ha avuto per cento anni una vera lupa ai piedi del Campidoglio.
La lupa, dividendo placidamente il suo pasto con un gatto

Il primo dibattito sui diritti dell’animale e la fine dell’usanza

I tempi iniziano a cambiare la sera del 28 giugno del 1954. Poco prima delle nove di sera la lupa del Campidoglio, un esemplare di tre anni, dopo una breve agonia muore. Non mangiava, non beveva e preferiva rimanere accasciata al suolo, manifestando pochissimi stimoli. Dapprima si pensa che la cosa dipendesse dal caldo estivo, poi, col passare delle ore, si decide di convocare un veterinario. Che però, pur intervenendo tempestivamente, non può far altro che constatarne il decesso. La notizia viene diffusa dai giornali e la questione solleva un inatteso dibattito sull’opportunità di tenere in cattività, ed esposto, un animale tanto bello e selvaggio. A fine estate, inoltre, Il Messaggero informa i cittadini che un inglese residente a Roma, tale Marian Johnson, aveva scritto una lettera al Times al fine di chiedere l’intercessione della nota testata giornalistica con l’amministrazione comunale romana per scoraggiarla dall’intento di introdurre una nuova lupa al posto di quella morta di recente. Johnson sottolineava che esporre una lupa fosse un atto dannoso oltre che per l’animale, anche per l’immagine della Città Eterna. Questo inasprì fortemente il dibattito tra chi voleva una nuova lupa e chi invece era d’accordo con il britannico. In mezzo, sarcasticamente, anche alcuni cittadini che proposero, invece, di mettere in gabbia a turno presso il Campidoglio il sindaco e a turno i consiglieri comunali. Populismo ante litteram, sì, ma dà la misura degli umori della città negli anni ’50. Il sindaco nel 1954 era Salvatore Rebecchini, affatto sensibile rispetto alle istanze animaliste. “Non comprendo il perché ci si preoccupi tanto delle condizioni di quell’animale“, andava dicendo. Ma le pressioni non tardarono ad arrivare, tanto che il Giardino Zoologico di Roma e l’Ente Nazionale Protezione Animali, inviarono diversi telegrammi a Rebecchini al fine di farlo desistere. Le polemiche andarono avanti ancora per molti anni. Ci vollero quasi vent’anni per far sedimentare la cosa. Fino a quando, all’inizio degli anni ’70, il Comune di Roma si fece finalmente interprete delle istanze animaliste. Così si decise di mettere fine a una usanza strumentale, antropocentrica, che non celebrava affatto i fasti di Roma. Ma, banalmente, costringeva un povero animale a vivere solo, stretto in una umida e angusta gabbia. Invece di correre libero nel suo habitat naturale.

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