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Violenza sulle donne. La storia: “Lui mi spinse giù dalle scale e la madre mi chiese cosa avessi fatto a suo figlio”

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Apro il giornale, sfoglie le pagine, cerco qualche buona notizia ed invece ennesima tragedia: siamo a Pordedone, lei Michela Baldo, lascia Manuel Venier, circa tre giorni fa, lui non accetta questa decisione, si infiltra a casa di lei, la uccide, e vigliaccamente, si suicida. 

Sono passati pochi giorni dalla morte di Sara Di Pietrantonio, la ragazza bruciata dal fidanzato qualche settimana dopo essere stato lasciato. Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di elaborare la brutalità di quella tragedia e oggi siamo di nuovo qui a parlare di un uomo che non ha saputo accettare un rifiuto, e di una donna scannata solo perché padrona della propria vita.

Quando si parla di violenza sulle donne l’argomento mi tocca colpendomi al cuore, forse più di quanto possa accadere a qualsiasi altra appartenente al mio genere, e questo perché anni fa una delle mie più care amiche visse quell’incubo. La settimana scorsa l’ho intervistata e fino a oggi ero indecisa se pubblicare o meno la sua storia, ma stamane ci siamo consultate ed eccola, con la speranza che la sua testimonianza possa essere d’aiuto a chi sta vivendo qualcosa di simile. 

Quanto siete stati insieme tu e lui? 

Siamo stati fidanzati per 2 lunghissimi anni, di cui l’ultimo un inferno in terra. Inizialmente era tutto perfetto. Un uomo premuroso, gentile, mi faceva sentire l’unica al mondo. Sì, era geloso, forse un po’ troppo, ma sai, io ero giovane e inesperta; quelle sue attenzioni, quel suo voler sapere dove fossi, con chi, cosa facessi, mi apparivano come segno d’interesse. Nulla di più.

Quando ti sei accorta che qualcosa non andava?

I primi segnali li ho avuti fin da subito ma, accecata dal sentimento, non li ho percepiti come invece avrei dovuto. Non amava che uscissi con le mie amiche: quando lo facevo, spesso me lo ritrovavo nelle vicinanze. Non potevo avere conoscenze di sesso opposto. Ricordo che una mattina mi “sorprese” a parlare fuori dall’università con un mio collega e reagì avvicinandosi e presentandosi a lui con una stretta di mano che provocò al malcapitato forte dolore. Arrivati in macchina mi disse, con tono pacato e con il sorriso sulle labbra, che se mai mi avesse trovata con un altro mi avrebbe fatto pentire amaramente di ciò. 

Di certo non una reazione normale, non credi? 

Sì, ma il suo modo di parlarmi, avvisarmi, anche di minacciarmi era subdolo. Mi accarezzava il viso mentre mi diceva che dovevo essere solo sua, e io, appena ventenne, ero convinta che mi amasse talmente tanto da reagire così.

Quando hai iniziato a capire che eri in pericolo? 

Tutto è degenerato dopo circa un anno, in vacanza a casa dei suoi, con i suoi, in una località turistica del sud Italia. La villetta era a due piani, la nostra camera al piano di sopra, quella dei suoi genitori a piano terra. Una sera rientrammo da qualche ora trascorsa con dei suoi amici e lui iniziò a darmi della poco di buono perché avevo parlato troppo con uno dei ragazzi presenti quella sera. In verità gli avevo rivolto a malapena parola, ma niente, lui continuava a sostenere il contrario al punto che io iniziai a gridare e lui, per farmi smettere, mi spinse fuori dalla camera facendomi cadere. Quando mi rialzai mi tirò uno schiaffo facendomi perdere nuovamente l’equilibrio, ma questa volta sulle scale. Rotolai giù, violentemente. La madre arrivò in tempo per aiutarmi a tirarmi su e dirmi “Che cosa gli hai fatto?”

Perdonami, non credo di aver capito bene. La madre ti ha chiesto che cosa avessi fatto tu a lui? 

Esattamente. Quella domanda mi provocò più shock di tutto il resto. Compresi che se mi avesse fatto realmente male, lei probabilmente sarebbe stata capace di coprirlo. Per questo sostengo a gran voce che alcune madri, quelle che non abituano i loro maschietti a dei no, quelle che li giustificano in tutto riconoscendoli anche come “ragazzi modello” nonostante abbiano ucciso una donna, sono responsabili quanto le loro “creature”.

Ti riferisci alla madre di Vincenzo Paduano, il responsabile della morte di Sara Di Pietrantonio? 

Esattamente, proprio lei. Nelle sue parole non ho trovato molta differenza dal “Che cosa gli hai fatto?” pronunciata dalla madre del mio ex. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma ci sono donne che mettono al mondo figli che diventano uomini che non sanno accettare contraddizioni e rifiuti; questo poi è il risultato.

Cosa accadde poi quella sera? 

Lui tornò in camera sua senza proferire parola. La madre mi diede del ghiaccio e, senza nemmeno andare da lui per chiedere delle spiegazioni, senza nemmeno chiedermi come stavo, si rimise a letto. Il padre quella sera non era in casa. Tornai su in camera e mi distesi accanto a lui quando già dormiva. Il giorno dopo provai a parlare con il padre, ma la paura che reagisse come la moglie o magari peggio, mi fermò. 

Dopo quella sera immagino tu abbia provato ad andartene da quella casa. 

No, non potevo. Ero piccola e senza un solo euro in tasca. Senza rendermene conto ero entrata in una spirale di totale dipendenza da quel rapporto. Il rapporto con i miei era in bilico – non entro nel dettaglio, ma ancora i sensi di colpa mi logorano – e io, senza “noi”, non ero niente. Addirittura lui teneva la mia carta di identità insieme alla sua, cosa che non mi apparve pericolosa fino a quando non scoprii che erano entrambe sotto chiave.

Quindi ti controllava anche nei movimenti?

Esattamente. Nessuna disponibilità economica e nemmeno un documento che attestasse la mia identità. Dopo quella sera aprii gli occhi ma era già troppo tardi. Tornati a casa la situazione degenerò, probabilmente il fatto di avermi messo le mani addosso una volta lo autorizzò a farlo di nuovo e ancora, e poi di nuovo, al punto che, una delle ultime volte, non mi feci vedere a dai miei genitori per almeno dieci giorni. I segni sul corpo erano troppo evidenti.

I tuoi ebbero sentore che qualcosa non andava? 

Litigai a morte con loro, fin dai primi tempi che mi legarono a quell’uomo. Come si dice? Cuore di madre non sbaglia mai. Lei sapeva tutto, dall’inizio. Non l’ha mai accettato e già dai primi tempi mi aveva avvisata. Non le piaceva, nei suoi occhi vedeva il nulla, nel suo modo di porsi ambiguità.

Ovviamente io non le diedi retta, arrivando, dopo pochi mesi di frequentazione, a convivere con questa persona, dividere lo stesso letto, la stessa tavola. Ero innamorata, quello che voleva essere il mio carnefice è stato il mio primo vero amore e ancora oggi quando ci penso provo paura e nausea.

Tornata dalla vacanza ti sei come svegliata da un sogno per ritrovarti in una realtà da film dell’orrore. Come hai reagito a ciò? 

Provando a uscirne in tutti i modi, ma cercando di non mettere a repentaglio l’incolumità di nessuna delle persone che avevo attorno. Iniziai raccontando tutto alla mia migliore amica e chiedendole in ginocchio di non dire nulla ai miei genitori; lo fece, non fu un bene, ma almeno evitò conseguenze più gravi di quelle che ci sono state. Nei mesi a venire quella casa diventò la mia galera. La violenza era routine settimanale, e non parlo solo di quella fisica, ma anche di quella psicologica, che lascia segni indelebili e più dolorosi di quelli che, sul corpo, si rimarginano. Lui sentiva che stava perdendo il controllo, io più di una volta ho avuto paura che potesse essere il mio ultimo giorno.

Sei qui e ne stai parlando, e questo mi fa ascoltare le tue parole con più serenità. Hai voglia di raccontare come ne sei uscita? 

Ho progettato tutto con grande precisione. Dopo l’ennesima lite, credo la più grave perché minacciò di uccidermi e uccidersi se l’avessi lasciato, decisi di andare via da quella casa e di allontanarmi dalla mia città per un po’. Feci passare parecchie settimane, facendo finta di nulla, fingendomi serena, una mattina lo salutai con un bacio che mi costò non sai quanto, aspettai che arrivasse in ufficio – ebbi conferma di ciò grazie alla mia migliore amica, lì posizionata per controllare – preparai una borsa al volo e mi recai a casa dei miei per avvisarli. Per loro, avere conferma di quello che stavo vivendo fu scioccante. Parlai con un maresciallo dei Carabinieri, amico di famiglia. Gli raccontai tutto. Presi un treno, mi trasferì a casa di una compagna di scuola che per lavoro si era trasferita in provincia di Milano. Rimasi lì per 7 mesi, ma nessuno, compresi i miei genitori, sapeva dove mi trovassi. Lui mi cercò per lungo tempo, poi tornò nella sua città natale. Qualche anno fa è tornato a cercarmi. Ancora oggi, quando cammino per strada, mi guardo le spalle.

Hai vissuto un’esperienza di vita traumatica, ma ne sei uscita più forte, consapevole che in vero amore non opprime ma lascia liberi di decidere. Oggi mi hai dato l’opportunità di raccontare la tua storia e io per questo ti sono grata. Un ultima domanda: tu che ti sei salvata, hai qualcosa da dire ad ogni donna che ti sta leggendo? 

Sì. Ormai siamo arrivate ad un punto dove nessun atteggiamento anomalo va sottovalutato. Alla prima avvisaglia devono alzare le antenne e la guardia. Qui non si gioca più, qui non si scherza. Il principe azzurro non alza le mani, non è morbosamente geloso, non distrugge psicologicamente parlando per rendere insicure e più facilmente controllabili! Non è regola che queste tre caratteristiche si presentino insieme. Un uomo può non alzare le mani ma distruggere mentalmente; non c’è differenza, è sempre violenza. 

Il principe azzurro non tiene in bilico, se ama o ha amato veramente, accetta anche di essere lasciato e non minaccia di compiere gesti inconsulti di fronte a ciò. Ragazze parlate! Apritevi! Raccontate alla vostra famiglia, ai vostri amici! Sporgete denuncia e allontanatevi, non concedendo in nessun modo seconda possibilità di dialogo. Mai. 

Camminate per strada a testa alta, non abbassate mai gli occhi. 

Quelle come noi devono sempre guardarsi alle spalle. 

Questo, quando ci si è dentro, è l’unico modo per salvarsi e uscirne. 

Alessandra Crinzi

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