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Bitcoin e rinnovabili, perché c’è la corsa alle fonti pulite tra gli operatori del settore

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L’estrazione di Bitcoin e di criptovalute, complessivamente parlando, comporta dei costi sempre più elevati, non solo dal punto di vista meramente economico, ma anche sotto l’aspetto energetico. Un costante aumento dei consumi che potrebbe certamente indurre a numerose riflessioni da parte dei Governi mondiali: la soluzione potrebbe essere quella, quindi, muovere il mix energetico il più possibile verso delle fonti pulite.

A parlare non è una persona qualunque, ma Massimo Siano, ovvero managing director e head of Southern Europe di 21Shares, che ha voluto mettere in evidenza come i vari operatori abbiano la piena consapevolezza di come l’estrazione delle criptovalute si sta trasformando in un’operazione poco sostenibile per l’ambiente ed è questa la ragione per cui tanti processi si stanno evolvendo. Insomma, ci troviamo in un periodo in cui si sta facendo il passaggio dalla proof of work alla proof of stake.

Cosa sta succedendo alla proof of work

La richiesta della proof of work è abbastanza facile da intuire, visto che comporta che i minatori siano in grado di risolvere degli algoritmi decisamente complessi mediante il loro hardware. Di conseguenza, ecco che vengono consumate moli imponenti di elettricità, così come per la realizzazione di nuovi blocchi all’interno di una determinata blockchain.

La proof of stake, invece, richiede agli stessi minatori di effettuare il deposito di una quantità ben precisa di criptovaluta, per poi provvedere alla selezione dei blocchi proporzionalmente rispetto al valore di criptovaluta che si detiene. In sostanza, anche chi non ha grande esperienza con questo settore, ma vuole cimentarsi con il Bitcoin trading, riesce a comprendere come la proof of stake sia un processo molto più sostenibile dal punto di vista ambientale.

C’è bisogno di un cambiamento

È abbastanza chiaro come sia necessario voltare pagina e anche in fretta, altrimenti la situazione diverrà sempre più difficile da sostenere. Giusto per fare un esempio, l’Islanda consuma più energia per l’estrazione del Bitcoin che per garantire il soddisfacimento del fabbisogno di tutte le case presenti sull’isola.

Il mining, quindi, è uno di quei processi che portano via davvero tanta energia, al punto tale che, per l’estrazione di un solo Bitcoin, i minatori corrono il pericolo di dover sopportare pure delle spese marginali pari al prezzo che attualmente caratterizza la stessa nota criptovaluta. Secondo le stime che sono state diffuse da parte del Centre for Alternative Finance dell’Università di Cambridge, i consumi di energia annuali sono pari a ben 55,33 Terawattora ed è una cifra che dovrà chiaramente salire sempre di più con il parallelo sviluppo del network. Ed è chiaro che i consumi energetici della rete Bitcoin sono destinati a crescere ancora di più, anche per via del fatto che quella dei minatori diventerà sempre più una professione a tutti gli effetti e la notorietà di questa valuta digitale non scemerà di sicuro.

L’uso di fonti pulite da parte dei minatori

Per il momento, non si conosce alla perfezione il mix energetico legato all’estrazione del Bitcoin, ma certamente si può pensare come, quantomeno parzialmente, venga alimentata da parte di fonti di energia non rinnovabili. Ed è chiaro che, in questo periodo storico, la crisi climatica potrebbe risentirne ancora di più. Ad ogni modo, diversi studi parlano invece che il 74,1% dell’energia che viene consumata per tali processi derivi da fonti rinnovabili, che rappresentano la nuova sfida anche per il Nord Africa. Se questi dati dovessero ricevere adeguata conferma, allora le operazioni di estrazione sarebbero già molto più sostenibile di quello che si potrebbe anche in essere, e molto più “green” in confronto a buona parte delle industrie classiche. Certo, andare a controllare la veridicità di tutti questi dati non è affatto semplice, ma non indubbiamente buona parte di tale processo riceve l’alimentazione da energia prodotta da fonti rinnovabili.

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