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ANIMALI, VITTIME DELLA MODA

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Nell’immaginario comune l’uomo primitivo riscaldava il proprio corpo con pelli e pellicce di animali cacciati – che sfruttava anche per il giaciglio e la capanna- e si cibava delle loro carni.

Oggi, lontanissimi da quell’era per cronologia, evoluzione, stile di vita, tecnologia e habitat, queste necessità sono state acquisite dalla moda e dal mercato e tramutate in consuetudine e mera vanità: vestiamo di pelle, lana e coloratissime sete, ci copriamo con morbide pellicce, indossiamo comode scarpe scamosciate, sediamo su divani in cuoio e dormiamo in caldi letti coperti di piume. Non solo, oggi godremmo della disponibilità di caldi e comodi materiali sintetici e la pelliccia ha cessato di essere un prodotto funzionale a riparare dal freddo, ma ci differenziamo dagli uomini primitivi anche perché il numero di animali che usiamo per le nostre vere o presunte necessità -se non vanità- è aumentato vertiginosamente; difatti, non li catturiamo più solo allo stato selvatico ma li alleviamo appositamente per trasformarli in materie prime. Ben lontani dalle prime società umane, in cui gli animali erano tra le poche fonti di vita, abbiamo tramandato e sedimentato nella nostra cultura tale uso, mantenendolo e intensificandolo come una delle maggiori risorse per condurre una vita “migliore”, ma dimenticandoci sempre di più chi siano questi animali e cosa provino.

In questo periodo dell’anno, non solo le scintillanti vetrine dell’alta moda più glamour si agghindano di manichini avvolti in capi vaporosi, ma in ogni settore dell’abbigliamento vengono proposti articoli in pelle e pelliccia, inserti, accessori o guarnizioni in pelo di animale, e il messaggio è sempre lo stesso: bellezza e vanità si ostentano così. Se infatti negli anni Ottanta la pelliccia rappresentava uno status symbol per la media borghesia che  assaporava il benessere, e le donne l’ostentavano con fierezza e superficialità perché oggetto di lusso, oggi il capo in pelliccia è diventato un elemento che non può mancare nel guardaroba di nessuno.
Verso la fine degli anni Novanta, difatti, il settore iniziava a subire importanti cali nelle vendite, così finì per mutare la sua strategia (che corrisponde a quella attuale) puntando su prodotti più economici e quindi su un mercato più ampio; le pellicce iniziarono a ricoprire i più svariati inserti, e non sempre etichettati a dovere visto l’inasprirsi dei regolamenti sulla produzione, ed essere prepotentemente riproposte. A questo scopo, soprattutto oggi, una parte consistente della produzione è stata delocalizzata in Cina che, grazie all’assenza di regole e vincoli, è diventata la più grande produttrice ed esportatrice al mondo di manufatti in pelliccia con una crescita vorticosa, permettendo così ai produttori europei e americani di eludere le restrittive norme interne e di risparmiare sulla mano d’opera. Recenti indagini condotte da Swiss Animal Protection e EAST International hanno portato alla luce orrori inimmaginabili all’interno degli allevamenti di animali da pelliccia, compresi cani e gatti, in Cina, ma anche in Romania e in altri paesi dell’Est.
Dagli storici lanci di uova contro le pellicce per le prime de La Scala ad oggi, la contestazione su tale produzione non si è mai fermata, iniziando a far presa in maniera particolare nel Centro-Nord Europa, tanto che la Germania ha ceduto all’Italia il primo posto in Europa come consumatrice di pellicce. I primi scandali sull’industria furono le indagini e le scoperte di allevamenti che adottavano metodi barbari di gestione e uccisione: vere e proprie esecuzioni che ponevano fine a brevi vite fatte solo di sofferenza, stress e privazioni; e la scoperta dell’impiego clandestino delle pelli di cani e gatti, tenuto nascosto grazie ad un sistema fuorviante di etichettatura dei capi. Progressivamente le legislazioni di molti paesi sono diventate più severe, sebbene pochi abbiano scelto di abolire gli allevamenti: Hollywood, una delle città più glamour e chic del mondo, ha vietato da quest’anno, con multe salatissime per i trasgressori, la vendita diretta nei negozi e online di qualsiasi capo prodotto con pelliccia animale, e ci augurimo che anche stavolta riesca a fare tendenza visto che in Europa le vendite tendono a risalire. Sebbene Olanda, Austria, Inghilterra, Scozia, Croazia e altri paesi europei abbiano vietato l’allevamento di animali per la produzione di pellicce o promosso forti restrizioni che portino alla naturale dismissione di questa attività, in altri paesi – tra cui l’Italia – gli allevamenti stanno aumentando. Negli allevamenti di visoni oggi attivi (in Abruzzo, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto) sono detenuti oltre 200.000 animali e sappiamo che altre strutture stanno per essere avviate.

Se nei primi anni del Duemila, infatti, moltissime attrici prestavano la loro immagine alla campagna di abolizione delle pellicce e tante donne iniziarono a snobbarle e relegarle nel fondo dei bauli, oggi giubbini, inserti di pelliccia su cappucci, tracolle, sandali, vestiti e persino orologi tornano a sfilare in passerella riproponendo come trendy il frutto della tortura.

Così, a livello mondiale, il business di pelli e pellicce comporta la sofferenza e la morte di circa 70 milioni di animali ogni anno tra visoni e lontre, castori, ermellini e volpi, zibellini e scoiattoli. Ma anche agnellini, bovini, cani, gatti e conigli. L’approvvigionamento di pellicce avviene per l’85% da allevamenti e per il 15 da catture in natura di animali spesso soppressi con metodi atroci e non riconosciuti dalle normative europee. Gli animali vengono uccisi dopo un’esistenza infima in piccole gabbie sporche con il fondo metallico in rete, esposti forzatamente al freddo e al vento per infoltirne il manto, la maggior parte di loro necessiterebbe di ampi spazi per vivere e le condizioni di privazione estreme fanno insorgere comportamenti stereotipati e alienazione psicologica, unicamente per soddisfare l’industria della vanità. Le tecniche di uccisione sono appositamente studiate per non pregiudicarne il manto, anche a scapito della sofferenza dell’animale e, sebbene gli stessi produttori ci tengano a presentare i propri allevamenti soggetti e rispettosi delle leggi e del benessere degli animali, lo fanno unicamente per presentare un prodotto finale perfetto e perciò meglio remunerato.

E’ inquietante anche solo il numero di animali che occorrono per confezionare un capo: dai 30 ai 60 per una pelliccia di visone, 240 di ermellino, dai 130 ai 200 animali per una di cincillà, dalle 10 alle 24 volpi per ottenere una sola pelliccia di volpe.

Mi sembra doveroso aprire una piccola parentesi poichè, nel caso delle pellicce l’opposizione è molto più semplice, perchè la violenza è smaccata e gratuita, ma vi sono altre consuetudini che riguardano il nostro abbigliamento dietro le quali la sofferenza è più celata e tollerata perchè si pensa sia inevitabile. La produzione di piume, pelle e cuoio – che consideriamo scarti dell’industria alimentare- lana e seta, anch’esse causano direttamente una grande sofferenza agli animali (si pensi alla brutalità di pratiche come il museling per le pecore o lo spiumaggio per le oche) offendendo anche la loro dignità e sottolineano l’indifferenza che proviamo per i loro corpi, oltre ad implicare l’esistenza di allevamenti, quindi gabbie e sfruttamento.
Tornando alle pellicce, molti non sanno che, oltre alla violenza, questo mercato rappresenta un’enorme minaccia per la nostra salute e per il pianeta: per “scaldarci” stiamo impoverendo lo strato di ozono e surriscaldando il pianeta, avvelenando aria ed acqua e intossicando il nostro corpo.

1 kg di pelliccia di visone ha un impatto sul cambiamento climatico 14 volte superiore a quello del pile o di altri materiali sintetici, sia a causa dell’alimentazione degli animali che delle loro deiezioni; molti allevamenti bovini finalizzati allo sfruttamento delle pelli soppiantano ciò che resta della foresta amazzonica, come denuncia da anni Greenpeace; per la lavorazione delle pellicce, che non hanno nulla di naturale, vengono usati cromo, formaldeide e diverse sostanze chimiche (pericolose per le risorse idriche) tossiche e cancerogene di cui possono rimanere residui sul prodotto finito, come ha dimostrato un’indagine della LAV effettuata su capi per bambini.
Ognuno di noi può opporsi a tutto questo acquistando in maniera consapevole e critica, senza necessariamente rinunciare al calore d’inverno. Esistono anche pellicce sintetiche con le quali sfoggiare una scelta precisa, quella di rispettare la vita in ogni sua forma, basta controllare le etichette ed evitare decisamente il made in China.

“Io vivo per le pellicce, adoro le pellicce. E del resto esiste una sola donna in quest’orrido mondo che non le adori?” Professava Crudelia De Mon in un noto cartone della nostra infanzia e, non a caso, il suo personaggio era dipinto come disgustoso e malvagio.
Preferite identificarvi nella volgarità di Credelia o nella finezza di Brigitte Bardot, vecchia “miliziana” della battaglia contro le pellicce? Eleganza, stile e classe non hanno nulla a che vedere con quanto la moda imponga, soprattutto se la vanità vale più della vita di un essere e del benessere del pianeta. Indossare un pelliccia può dire molto di noi, ed è la cosa meno glamour che ci sia al mondo, non comprarla è una prova autentica di eleganza interiore.
Alessia Campoli – Attivisti per i diritti degli animali Pomezia

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