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Stefano Petucco: “Roma per i musicisti è diventata una piazza troppo difficile e contraddittoria”

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Stefano Petucco, foto di Matteo Torre.

Lo incontriamo a Tor Pignattara Stefano Petucco, in una di quelle rarissime serate romane dove il gelo e l’anestesia ovattata della neve cercano di omologare i suoni di un quartiere cosmopolita in perenne e frenetica evoluzione. Un posto dove si mescolano tante culture dalle identità forti e che creano così l’humus ideale per nuove tendenze e stili di vita.

Un po’ come nella musica di questo chitarrista trentanovenne di Nettuno, ‘vittima’ in un certo senso dei tempi globali e globalizzanti, che stridono con il suo percorso artistico. Più di vent’anni di musica alle spalle, la maggior parte della quale inedita e composta da lui, e che ha nel rock, nel metal e nel funk i suoi prodromi.

Poi la virtù che nasce dalla necessità: “Dopo il primo periodo rock ho avuto una brutta tendinite, ma questo non ha fermato la mia fame di musica”, ci dice, aggiungendo che: “per un paio d’anni ho dovuto abbandonare la chitarra elettrica. Ho però imparato ad approcciare alla musica mediante altri strumenti come il didgeridoo e soprattutto la chitarra classica, più morbida e maneggevole, sotto l’influenza di artisti come Paco De Lucia e Irio De Paula”. E’ in questo momento preciso che il linguaggio di Petucco vira bruscamente verso gli accenti che oggi lo caratterizzano maggiormente: flamenco, samba e bossa nova.

Ma andiamo con ordine.

Sei album all’attivo, il primo già accennato è ‘Idrovore’ del 2008 dove il chitarrista ‘sconta’ ancora l’amore per il metal come testimoniano brani come ‘Barpa‘: “Idrovore è il mio progetto legato alla città di Latina, il primo che ho portato in sala di registrazione, sperimentale e soddisfacente, anche se è durato molto poco”, ci racconta.

Nel 2011 esce l’album omonimo ‘Stefano Petucco’ nel quale comincia a farsi largo tra sonorità jazz, classiche, classiche contemporanee e, più in generale, latin. E’ il primo lavoro di sintesi sui generi da egli proposti e da questo momento le sonorità di cui sopra non lo abbandoneranno più.

Addirittura l’anno successivo, nel 2012, esce ‘Stefano Petucco 2’ che risulta un’estensione del primo album omonimo; il rapporto d’amore imperniato sul latin e la classica contemporanea continua con l’aggiunta di qualche sperimentazione rappresentata ad esempio dalla rivisitazione strumentale di ‘Vedrai Vedrai’ di Luigi Tenco, dove la chitarra di Petucco respira come uno strumento a fiato e le frasi si articolano giocoforza sulle dinamiche. Siamo lontani già anni luce da ‘Idrovore’ e proprio a proposito della canzone italiana ci tiene a sottolineare: “Non seguo Sanremo da almeno quindici anni. E’ proprio dal repertorio di fine anni ’60 che in questo campo non noto nulla di interessante”.
L’amore per la musica di livello inoltre porta Stefano ad autoprodursi fino a questo punto della carriera e ad inserire nei suoi album varie forme di riconoscimento artistico ai suoi epigoni, come nei confronti del suo ex maestro Gianluca Verrengia.

Nel 2014 viene dato alla luce ‘Disillusione’, prodotto questa volta in collaborazione con Sonar Project e la cantante Annalisa Marra, lavoro totalmente basato sui ritmi e le scale creole del Sudamerica: qui in forma canzone vengono passate in rassegna la rhumba, il bolero e il tango, fermo restando lo spirito naturalmente orientato al sincretismo. Il proseguo naturale di questo lavoro viene espletato nel 2017 con ‘Romanzo d’inverno’.

Ma è nel 2015 che viene pubblicato il lavoro forse più interessante e maturo di questo artista: ‘Livor Mortis’. “E’ metaforicamente la condizione in cui mi trovo da qualche anno a Roma. Qua siamo in una piazza molto difficile per suonare”, sottolinea, specificando che: “Livor Mortis è questo per me. Inoltre rappresenta l’altra faccia di una medaglia che si era mostrata prima con ‘Disillusione’; è il suo lato oscuro, la sua parte più recondita, infatti i brani sono gli stessi rivisitati in chiave prettamente strumentale e alla luce di un’altra poetica”. E’ infatti evidente il salto poetico in brani come ‘Ceneri del passato’ rispetto alla sua versione contenuta in ‘Disillusione’.

E’ un Petucco amaro questo, e per questo forse giunto definitivamente a maturazione, che comincia a volgere lo sguardo verso le criticità e le contraddizioni del mondo circostante, assumendo un atteggiamento di denuncia: “Roma è una città provinciale e questo è paradossale. Qua la difficoltà di suonare dal vivo è enorme ed essere retribuiti adeguatamente è una chimera” ci dice, appunto, non senza livore: “Chi gestisce i locali in buona parte gioca il ruolo del dilettante allo sbaraglio. Vengono preferiti spesso dei gruppi cover di artisti mainstream piuttosto che proporre musica più ricercata, elaborata e raffinata”.

In riferimento a ciò ci rivela: “E’ così anche negli ambienti più di nicchia come quello jazz. L’ambiente jazz romano è altresì molto chiuso, dove ognuno coltiva il proprio orticello e sono in pochi quelli disposti a condividere. Non solo: i jazzisti romani sono competitivi e tendono sempre a screditare i colleghi”. E infine apprendiamo che: “Anche gli eventuali giudizi e la critica rispetto ai brani proposti si basano su tutto tranne che su concetti musicali e anche per questo sto pensando di emigrare in Belgio” chiosa Petucco.

Ascoltando queste parole non possiamo non pensare a ciò che diceva un mostro sacro della musica come Béla Bartòk: “La competizione è per i cavalli, non per gli artisti”, e che sarebbe inorridito nel prendere atto della situazione artistica attuale in una delle maggiori capitali europee. E chissà, forse anche a Petucco sarà venuto in mente il compositore ungherese, quando si è ritrovato a scegliere la copertina di ‘Livor Mortis’ che ritrae proprio un cavallo morto.

Nonostante tutto, però, pare esserci un pizzico di ottimismo nella produzione di questo ottimo chitarrista e compositore, rappresentato proprio dalla bellezza del linguaggio musicale: “Ora ho comunque dei progetti in essere come ‘Huracan Tango’, un gruppo di tango e milonga nel quale eseguo brani già editi, e ‘Vanishing Point’ nel quale mi spingo in direzione del rock progressivo tornando in un certo senso alle origini di ‘Idrovore‘”. Dunque pare esserci la complessità nel futuro di Stefano Petucco, come quella offerta dal racconto musicale e della psichedelia.

E noi, da fruitori attenti, speriamo che in quel futuro per Stefano ci sia ancora l’Italia e che non sia costretto a scappare da un Paese che alla musica ha dato tanto in passato, ma che oggi costringe i suoi artisti a scappare.

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