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Lettera di una psicologa

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Sono arrivata a Pomezia per dinamiche di natura personale, qualche mese dopo sono riuscita ad avviare qui la mia seconda sede lavorativa. La mia collaborazione con «Il Corriere della Città» è partita quasi subito, curo la rubrica settimanale dedicata al benessere psicologico: questa domenica «rubo» lo spazio per raccontare qualcosa che sta accadendo a me, per condividerla con voi lettori nell’obiettivo unico di portare l’attenzione all’uso disfunzionale che si sta facendo dei nuovi mezzi di comunicazione.

Ci tengo a sottolineare che la mia attività è un lavoro di aiuto, di ascolto e supporto per la risoluzione di difficoltà che rendono difficile la quotidianità. Non sono una missionaria poiché non aspiro alla santità, non sono nemmeno un giustiziere: cerco di svolgere il mio dovere semplicemente.

Da subito ho ricevuto tante richieste da parte di utenti in stato di necessità -mamme di bambini o adolescenti, anziani, donne vittime di violenza- inseriti in chissà quale punto della lunga lista d’attesa del DSM; la frase ripetuta «dottoressa, può aiutarmi lei?» ha messo in evidenza quello che è un grosso problema della sanità: la cattiva gestione dei disturbi psicologici, quasi appartenessero a pazienti di serie B.

Mi sono recata al comune per chiedere aiuto e  ho avuto conferma del fatto che risolvere la questione non è semplice, anche per carenza di fondi.

Sono stata contattata per episodi di cyberbullismo. Ho raccolto la segnalazione giunta da una cittadina stanca di guardare senza reagire, e attraverso la mia rubrica – con il consenso pieno della direttrice che ne gestisce la testata – ho riportato i fatti suggerendo la denuncia agli organi competenti e comportamenti più responsabili degli utenti .

Dopo la pubblicazione dell’articolo su citato, la mia pagina Facebook è stata segnalata e successivamente bloccata. Non ho ricevuto nessuna spiegazione in proposito. Nelle settimane successive sono stata chiamata in causa – attraverso tag – in discussioni virtuali che secondo me avevano lo scopo di accendere una discussione. Inoltre, mi sono trovata «fuori» da alcuni gruppi di Pomezia senza nessuna spiegazione.

Cosa sto diventando, anch’io vittima di bullismo virtuale? Non credo!

Queste dinamiche mi sembrano rivelare una paura del confronto, intendiamoci: si può anche arrivare a toni aspri e decisioni nette (es.: bloccare un profilo) ma è psicologicamente disfunzionale credere che la società sia chiusa tutta in un gruppo virtuale o che i vari «ghetti» debbano essere delimitati da recinti confinati e protetti dalla modalità «gruppo chiuso»; questo processo mentale equivale a chiudersi in una bolla.

La base è che comunque, da parte di tutti, ci sia piena disponibilità all’ascolto e a «venirsi incontro»; nella vita reale, così come in quella virtuale, schierarsi rigidamente e pregiudizialmente non risolverà nessun problema (anzi), proprio come accade nell’assetto socio-politico o nelle tifoserie calcistiche, là dove forze diverse si rivelano non disponibili a mediazione finendo per nuocere all’intero paese.

Occorre una maggiore umiltà e responsabilità nell’uso dei mezzi di comunicazione. Credo che la sfida comune a tutti noi sia imparare a «stare» su Facebook come se si fosse in un posto pubblico dove nessuno vorrebbe fare brutta figura.

Ho voluto esprimere il mio pensiero in merito come qualsiasi altra persona, non sono in cattedra a spiegare o giudicare.

La mia vita resta quella di prima, che la mia pagina sia libera o segnalata, che io sia dentro o fuori da un gruppo Facebook.

Continuerò il mio lavoro di aiuto e resto aperta al dialogo.

A chi invece vuole tenermi fuori, sarò felice di offrire un buon caffè di fronte al golfo di Napoli.

Se volete raccontarmi le vostre storie per sciogliere insieme qualche nodo disfunzionale, scrivete all’indirizzo: psicologia@ilcorrieredellacitta.it

Vi aspetto.

Dott.ssa Sabrina Rodogno

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