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Coronavirus, il Prof. Andreassi: «Decessi sottostimati. ‘Testare, tracciare e trattare’ unica strada, ma in Italia non si fa. Prendere tempo non sconfiggerà il virus»

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In questi giorni di prolungato ‘lockdown’ lei ha raccontato la drammatica evoluzione dell’epidemia in Italia ricorrendo spesso a metafore sullo sport. Da dove è nata l’idea?

I numeri sono il mio lavoro e lo sport è la mia passione. Aggiungiamoci un po’ di ipocondria e nasce Virologia Numerica, trasformatasi poi in Zona Mista. Cercando di dare un senso a dei numeri che spesso il senso non lo hanno e tentando di individuare una logica. Magari aiutandoci con qualche partita di basket o tappa pirenaica del Tour de France.

In un post del 27 aprile ha paragonato la situazione dell’Italia alla “finale degli Europei del 2000”: può spiegare questo concetto a chi magari si imbatte in questo parallelo calcistico per la prima volta?

Ascoltando il Premier Conte parlare di fase 2, ho pensato a quella partita. E’ abbastanza evidente, infatti, come il Governo abbia deciso di non decidere. Anzi, peggio, di aprire un pochino ma non troppo. Cercando di prendere tempo in attesa che succeda qualcosa. Cosa esattamente non si sa, vista l’assenza di strumenti di attacco al virus, di un piano reale di isolamento delle linee di contagio (test, tamponi e strumenti di tracciamento digitale). Probabilmente la speranza che il virus scompaia per conto proprio, per il caldo o per la stagionalità. E, queste “non decisioni”, talvolta portano a situazioni drammatiche. Il “riaprire un pochino” senza strumenti di sorveglianza attiva darà sicuramente al virus nuove gambe su cui muoversi. Un po’ come in quella finale in cui Zoff tentò in tutti i modi di prendere tempo e di portare a casa il vantaggio di Delvecchio. Finì che la Francia, il virus, pareggiò al 93mo e vinse ai supplementari. Ecco. La preoccupazione che le “non decisioni” del Governo indirizzino la nostra partita contro il virus esattamente come Italia Francia, mi preoccupa moltissimo.

In questi giorni lei ha portato la sua esperienza maturata “sui numeri”, benché in altra materia, all’andamento dei contagi in Italia. Qual è la fotografia che ne è uscita fuori?

Grazie all’impegno ed al senso di responsabilità del popolo italiano che con enormi sacrifici personali, sociali, psicologici ed economici si è chiuso dentro casa per due mesi, si è riuscita a ridurre significativamente l’intensità di circolazione del virus. Ma il virus è ancora vivo. Il fatto che non siano ancora disponibili test e tamponi in numero adeguato, così come strumenti di tracciamento digitale, potrebbe provocare una enorme difficoltà nel contenere la riaccensione di eventuali focolai man mano che si riapre, ricadendo nella drammatica situazione di questi due ultimi mesi.

Se all’inizio si parlava di numeri “gonfiati” per i decessi provocati dal Covid-19, il noto tema delle morti “per” o “con” Coronavirus, adesso gli esperti ipotizzano che i dati potrebbero essere addirittura sottostimati a causa delle vittime di questo periodo alle quali non si è fatto in tempo a somministrare il test. Lei che idea si è fatto?

Le testimonianze dei sindaci, in particolare di quelli lombardi, vanno tutte nella stessa direzione. Ovvero di ritenere sottostimato il numero dei decessi. Temo che possano essere molti di più. Come certamente sono enormemente di più i positivi non censiti. La nostra limitatissima capacità di test ha individuato, infatti, a mio avviso, al massimo un decimo dei contagiati.

Nella pianificazione della “Fase 2” sembra mancare una parte fondamentale, ovvero la strategia d’attacco al virus. Francia e Germania hanno dimostrato che non appena si allentano le misure restrittive i contagi tornano a risalire rapidamente: in pratica è come se il virus restasse a casa con noi per poi tornare ad uscire non appena le maglie si allargano. Lei, sin dall’inizio, ha ribadito la necessità, per questo, di effettuare test a tappeto per cercare di isolare le linee di contagio del virus. Perché in Italia questa sembra non essere la priorità?

C’è da dire che sembra che le notizie uscite su Germania in particolare non siano vere. Sul fatto del motivo per cui in Italia non venga vissuta come una priorità, davvero non saprei. Ne sono basito. La linea è chiaramente una. Ed è anche ben identificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Test, trace and treat. Testare, tracciare e trattare. E’ l’argomento centrale in ogni discussione a qualsiasi livello mondiale. Tranne che da noi. Dove mi pare si sia principalmente concentrati sui fidanzati se siano stabili o meno e sulle feste coi parenti.

Un caso emblematico è quello della Corea del sud. Benché sia sempre difficile paragonare Nazioni molto differenti tra loro i numeri ci dicono che dall’inizio dell’emergenza ci sono stati “solo” 244 vittime e poco meno di 10.000 casi. E lì si fanno tamponi e si tracciano gli spostamenti dei cittadini. E’ una coincidenza?

No. Hanno semplicemente adottato la linea test, treat and trace. Ma non serve andare così lontano. Basta osservare il Veneto che ha scelto una linea coraggiosa di test, sorveglianza attiva e di isolamento delle linee di contagio. I primi focolai sono partiti in Lombardia e proprio in Veneto. Il Veneto ormai da venti giorni ha numeri in calo ed è in sostanziale controllo. Non aver seguito le linee guida nazionali, testando anche gli asintomatici e non solo i plurusintomatici come invece indicato dalle linee guida, ha dato evidentemente dei risultati egregi. In particolare nella capacità di intervento tempestivo sul malato, riducendone i rischi di complicazioni polmonari e, di conseguenza, evitando anche il congestionamento delle terapie intensive. Insomma, se testi e tracci non sbagli. Anzi. E’ l’unica strada.

Sempre su questo tema le chiedo. Cerchiamo di dare per scontata l’assoluta competenza dei comitati di esperti creati dal Governo. Se questa non è la strada battuta, malgrado l’OMS dica le stesse cose, deve esserci una spiegazione valida: forse il SSN non è in grado di gestire una quantità così elevata di tamponi? O forse si considerano “risorse sprecate” il fare test a fronte di un’assenza di sintomi? Insomma un motivo deve pur esserci…

Immagino ci sia. Lo penso anche io. Ho ascoltato Macron parlare alla Nazione. Intanto, non ha mai detto che la Francia fosse un modello da seguire. Nessuna autoreferenzialità. Nessuna retorica. Anzi una grande assunzione di responsabilità nel dire ai cittadini che la sua convinzione fosse che si dovessero effettuare test ed isolare il contagio. E non ha avuto paura di dire che, in quel momento, la capacità della Francia fosse solo di 3000 tamponi al giorno. Ma allo stesso tempo, mentre chiedeva al suo popolo di chiudersi in casa, si è impegnato ad arrivare in due settimane ad una capacità di 100.000 test al giorno. Ed oggi la Francia effettua 700.000 tamponi a settimana. Gli altri il messaggio di OMS lo hanno recepito. Noi, con addirittura un super consulente che inizialmente pensavamo fosse di OMS per poi scoprire che era solo un delegato del governo all’OMS, non sembra siamo stati in grado di recepire appieno il messaggio.

Un timido passo verso il monitoraggio degli spostamenti era stato fatto attorno all’App “Immuni” sulla quale però è scoppiato un putiferio sul fronte della privacy. Non le sembra paradossale questa battaglia quando poi tutti noi abbiamo messo in mano ai colossi della tecnologia e alle aziende commerciali tutti i nostri dati sensibili? Peraltro, grazie alla geo localizzazione, i nostri smartphone sono già tracciati e io personalmente vorrei sapere se ho avuto contatti con una persona positiva al virus. Qual è il suo punto di vista?

In Corea del Sud, posto che hanno talmente tanti strumenti di tracciamento per cui l’app neanche è servita, sai cosa hanno utilizzato? Google timeline, l’applicazione di Google Maps che registra i nostri spostamenti e che, verosimilmente, abbiamo tutti attiva sul nostro smartphone. Ciò che trovo difficilmente accettabile è che ancora siamo nella fase in cui si parla di app. Anziché averla già disponibile sui nostri telefoni. Relativamente alla privacy, va chiaramente tutelata. L’assurdità è che ci si pensi ex post. Tanto che l’app IMMUNI ha cambiato impianto rispetto alla versione iniziale optando per il sistema Apple&Google secondo il quale i dati restano nel cellulare. Insomma, una soluzione semplice e a tutela del cittadino a cui, probabilmente, ci si poteva e doveva pensare dall’inizio.

La “Fase 2” in realtà non inizierà almeno fino al 18 maggio perché al di là delle visite ai congiunti cambierà poco o nulla per almeno due settimane a partire dal 4. Secondo lei c’è il rischio concreto di ricadere in un nuovo ‘lockdown’ in assenza di strumenti atti ad isolare il virus?

Direi proprio di sì. Il rischio esiste. Ed è concreto. Si pensi al concetto di “congiunti”. Si è passati dai parenti di primo grado, ai fidanzati, purché stabili ed ora sembrano possano rientrare nella categoria. Una situazione grottesca che però ci fa capire come, comunque, le reti di relazioni interpersonali dal 4 maggio si riattiveranno in maniera significativa. Bisogna far capire alla gente come comportarsi in questa situazione nuova.

In questa partita c’è il rischio che le Regioni eseguano degli strappi in avanti, in termini di aperture, come ha già fatto il Veneto (ieri la Calabria, ndr), scavalcando di fatto il Governo. A cosa porterebbe questo scenario?

Io credo che uno dei problemi più grandi di questa epidemia sia stato proprio il Titolo V e l’autonomia delle Regioni in materia Sanità. Nello specifico del Veneto lo strappo è stato saggio. Ma, chiaramente, non può funzionare così. Sarebbe bastato un Sì al referendum. E forse oggi staremmo in una situazione meno critica.

Chiudiamo con il caso del Lazio. Lei è un consigliere comunale ad Albano, quindi vive la realtà delle istituzioni: come è stata gestita secondo lei l’emergenza?

Il virus ha circolato nel Lazio, senza dubbio, con una intensità ridotta rispetto al Nord. Sia perché il lockdown è intervenuto prima del tracollo sia perché nella nostra Regione l’Ospedale Spallanzani rappresenta una reale eccellenza ed è stato un fondamentale punto di riferimento.

Si è dato una spiegazione di quanto avvenuto nelle RSA? Se non si riescono a proteggere le fasce più deboli della popolazione si può dire che il sistema abbia fallito?

Il COVID19 ha certamente le caratteristiche di un virus nosocomiale. Senza dubbio. alcune RSA, anche qui nella nostra ASL, si sono trasformate in veri e propri incubatori del virus. La verità è che molte di queste strutture non sono state in grado di gestire la situazione perché non caratterizzate da standard adeguati. Si aggiunga anche il fatto che spesso, gli operatori sanitari di supporto alle RSA, medici, infermieri, fisioterapisti, sono gli stessi che lavorano negli ospedali. A volte, almeno all’inizio, senza neanche gli adeguati sistemi di protezione. Ed ecco il dramma delle RSA. Ma, forse, questa situazione drammatica potrebbe rappresentare l’occasione per ripensarle.

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