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Il Comune gli vuole far pagare l’ICI abolita per le prime case: l’odissea di un cittadino che costerà a tutti i contribuenti di Pomezia

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564 euro per l’Ici non versata nel 2009, più 51,50 euro di interessi, più 199,20 euro di sanzioni amministrative per il mancato pagamento e 5,18 euro di spese di notifica, per un totale di 790 euro. Questo l’accertamento, fatto dalla società Andreani e notificato dall’ufficio tributi del Comune di Pomezia, a M.C., cittadino residente dal 2000 a Torvaianica Alta, dove è proprietario al 100% di un villino acquistato, con mutuo, nel 1999. Peccato che, trattandosi di una prima casa – oltre che l’unica di proprietà per il contribuente e per i suoi familiari – l’Ici nel 2009 non dovesse proprio pagarla, visto che quell’anno era stata abolita da Berlusconi. La tassa era stata mantenuta solo per le seconde case, mentre le abitazioni principali c’era stata una “tregua” prima che si trasformasse in Imu. Dopo aver ricevuto la cartella l’uomo, sapendo di aver ragione, si reca all’ufficio Tributi del Comune di Pomezia e all’Andreani, la società di accertamento tributario dell’Ente, cercando di chiarire la sua posizione. “Per prima cosa – racconta l’uomo – ho chiesto per quale motivo, essendo unico proprietario della casa, accatastata come A7 e quindi rientrante nelle agevolazioni previste dal Governo, dovessi pagare. Mi è stato risposto che, dal momento che mia moglie e mia figlia risultavano residenti in un altro Comune, io perdevo il diritto di abitazione principale, e che quella in cui vivo è in realtà la mia casa delle vacanze”. Per 4 mesi l’uomo ha continuato a produrre tutta la documentazione necessaria per dimostrare che nella villetta di Torvaianica Alta lui ci vive davvero, felicemente, con moglie e figlia, che hanno la residenza altrove solo per poter mantenere il medico di base ed il pediatra che le segue da sempre. Non sono serviti gli estratti conti della banca, regolarmente inviati a Torvaianica, né le utenze di luce, gas ed acqua che dimostravano consumi costanti tutto l’anno, non è servito il referto di una visita medica fiscale inviata alla moglie durante una malattia dal lavoro, né l’iscrizione a scuola o l’abbonamento della piscina per la bambina. Niente: la documentazione che l’uomo e il suo commercialista producevano per dimostrare che quella in cui l’intero nucleo familiare vive è l’abitazione principale e non la seconda casa non hanno mai convinto l’ufficio tributi e l’Andreani, che continuavano non solo a chiedere soldi e interessi, ma si facevano forti di una sentenza di Cassazione che, leggendola bene, dà ragione al contribuente e non al Comune di Pomezia. È una lotta che dura mesi, ma che ad un certo punto ha una svolta: parte il termine di 60 giorni per presentare ricorso contro il pagamento preteso dall’Ente. E l’uomo, aiutato dal suo commercialista, che ovviamente si fa pagare tutto il lavoro sin qui svolto e quello successivo, decide di prendere questa strada, avvisando le due referenti dell’ufficio tributi e dell’Andreani che, qualora non venissero riconosciute le sue ragioni per via bonaria, avendo portato tutta la documentazione necessaria a tale scopo, avrebbe presentato ricorso. Un’altra lite giudiziaria che, per il Comune, si sarebbe andata ad aggiungere alle tante pendenti. Eppure l’evidenza dei fatti era davvero macroscopica. “Ma non c’è stato nulla da fare – racconta l’informatico – il 60° giorno, quindi al limite massimo di scadenza per la presentazione della domanda, il mio commercialista ha fatto l’ennesimo tentativo di risoluzione bonaria, spiegando che un contenzioso legale sarebbe costato al Comune, e quindi ai cittadini, almeno 4 volte tanto quello che loro ritenevano un mancato guadagno. Questo importo andava poi moltiplicato per due, visto che mie le spese legali, visto che sono più che sicuro di come finirà la causa, saranno accollate al Comune. Senza contare che potremmo chiedere i danni, dal momento che sono stato accusato di non essere in buonafede. Eppure, nonostante il professionista avesse spiegato tutto questo, la risposta è stata ancora una volta che potevo tranquillamente fare ricorso, perché il “fantomatico” responsabile dell’Andreani, con cui avevamo chiesto di parlare più volte, non si era degnato di rispondere e quindi non si poteva assolutamente fare nulla”. Telefonicamente, sia la funzionaria dell’ufficio tributi che l’impiegata dell’Andreani ammettono sia al contribuente che al commercialista che effettivamente hanno ragione, ma di scritto non c’è mai nulla che possa risolvere positivamente la questione. L’uomo chiede quindi formalmente per l’ennesima volta l’annullamento dell’accertamento, ma non ottiene nessuna risposta.

Alle 18:00 del 17 febbraio, ultimo giorno utile, il commercialista invia la raccomandata con il ricorso, nel quale viene dettagliata tutta la situazione, palesemente a favore del suo assistito. Copia del ricorso viene mandata anche al Comune e alla Andreani.

La mattina dopo succede qualcosa, perché nel pomeriggio arriva una telefonata al contribuente. Sembra che la pratica sia stata meglio studiata e che ci si sia resi conti che effettivamente c’è stato un errore da parte loro. L’Ici non era dovuta e, finalmente, l’impiegata della società di accertamento risponde accogliendo l’istanza di annullamento e dando così ragione al contribuente. “Ma ormai era troppo tardi: l’annullamento è arrivato il giorno successivo alla presentazione del ricorso che naturalmente andrà avanti – dice il cittadino – chiederò al Comune anche i danni materiali, morali e il risarcimento delle spese sostenute”. Ma la cosa più tragica in tutto questo è che, durante i quattro mesi di calvario dell’informatico, lo stesso è venuto a sapere dall’Andreani che gli accertamenti in corso sull’Ici prima casa del 2009 sono circa 2.500 e di questi, verosimilmente, almeno la metà potrebbero essere errati. Cosa succederebbe se adesso, venuti a conoscenza di questa assurda storia, tutti facessero ricorso? “Il Comune dovrebbe andare a pagare una cifra spaventosa di rimborsi, e tutto per errori macroscopici e per un’incredibile quanto immotivata testardaggine nel non voler accettare la documentazione che dimostrava questo errore”. Infatti l’uomo, prendendo giorni di ferie e permessi vari, perdendo tempo alla ricerca di tutta la documentazione necessaria e mettendosi a completa disposizione della controparte, era riuscito a produrre e presentare le prove per dimostrare la reale dimora dei suoi congiunti con netto anticipo sui tempi della scadenza. La gravità del fatto è che queste non siano mai state prese in considerazione se non, con somma negligenza o con calcolata premeditazione, dopo il termine ultimo per presentare ricorso, cosa che ha più che raddoppiato i costi sostenuti dall’uomo e che ora rischiano di ricadere sulla collettività. Ma tanto, a pagare non sarebbe il Comune, bensì noi cittadini.

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