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Roma, rilancia l’attività alberghiera in Via Veneto poi finisce sul lastrico: «Il Covid è stata la scusa, ecco il piano dei locatari “per farmi fuori”»

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Un imprenditore che restaura e rilancia una promettente attività alberghiera in una delle zone più “in” della Capitale, Via Veneto, prendendo in affitto uno stabile a dir poco fatiscente. L’inizio, nonostante alcune difficoltà legate proprio ai lavori, è buono, i profitti iniziano ad arrivare ma poi il sogno si infrange e l’imprenditore finisce sul lastrico. All’apparenza sembrerebbe una storia come purtroppo ce ne sono tante considerando che l’epilogo coincide peraltro con lo scoppio della pandemia che ha fatto sprofondare il settore in una crisi senza precedenti.

E invece, stando ai documenti inviati alla nostra Redazione, dietro ci sarebbe molto di più.  Una prassi, un sistema studiato a tavolino per far rilanciare attività o locali abbandonati, eseguendo costosi lavori di ristrutturazione, per poi “rilevarli” attraverso stratagemmi a prova di avvocato, incassando nel frattempo gli affitti, spesso molto alti. In questo caso poi all’imprenditore rimasto coinvolto in questo dramma personale – ma che avrà conseguenze anche su altri lavoratori – è andata ulteriormente peggio, dato che il Covid ha servito su un piatto d’argento la scusa perfetta ai locatari per risolvere così la questione. Il “delitto” perfetto, insomma.

La storia

La vicenda inizia nel 2014, quando l’imprenditore decide di prendere in affitto alcuni locali situati in Via Veneto con formula 9+9, come prevede la legge. Ma subito si presentano le prime “stranezze”. L’uomo, per andare avanti e firmare il contratto, deve accettare una duplice clausola: in uno dei suoi articoli il contratto avrebbe previsto la prelazione a favore del  locatore nel caso di cessione dell’attività da parte del locatario (l’imprenditore). In altre parole se avesse avuto una opportunità di vendita della attività, che di lì a qualche mese sarebbe stata avviata, avrebbe dovuto preventivamente informare il locatore con 30 giorni di anticipo, il quale avrebbe potuto esercitare la sua prelazione.

Fin qui tutto lecito, ma ecco spuntare la seconda condizione: la richiesta di una disdetta dal contratto di locazione firmata, ma con data in bianco da custodire presso un notaio in una busta sigillata senza rivelarne al notaio stesso il contenuto, insieme ad una lettera di accompagnamento che avrebbe dettato le condizioni di riconsegna. Due le eventualità previste: se il locatore avesse ricevuto una raccomandata  che lo invitava ad esercitare la prelazione (caso di vendita della attività da parte mia) oppure, in caso non si fosse verificata la condizione precedente. In ogni caso, il plico doveva essere rilasciato alcuni mesi prima della scadenza dei primi 9 anni di contratto. I mesi prima avrebbero  coinciso con i mesi legali di preavviso di recesso indicati nello stesso contratto. 

Dunque tutto era già studiato a tavolino? Lo chiediamo all’imprenditore che ha deciso di rivolgersi al nostro giornale per raccontare la sua storia. «Penso che sia stato tutto collegato ma l’ho capito dopo. In caso di mia spontanea disdetta dal contratto io non avrei avuto diritto all’avviamento commerciale. Quindi sia in caso di tentata vendita dell’attività che in caso di scadenza naturale dei primi 9 anni di locazione il locatore avrebbe avuto nelle mani una disdetta dal contratto (recesso) da me firmata. Avrebbe applicato la data del momento (bastava un banale normografo per non incorrere in problemi di grafia), avrebbe spedito una raccomandata a se stesso ma con mittente il sottoscritto ed avrebbe avuto tra le mani un recesso dal contratto di locazione con tanto di mia firma e timbro postale», ci dice.

I lavori consegnati in ritardo e il primo tentativo di sfratto

Se da un lato dunque l’avventura non inizia certo all’insegna della trasparenza l’imprenditore, non senza difficoltà, riesce a partire con la sua attività alberghiera. Archiviati i primi mesi, dato che i lavori di ristrutturazione vengono consegnati molto in ritardo facendo saltare l’alta stagione del 2014, l’uomo è costretto a chiedere alla proprietà di attingere temporaneamente alla cauzione di oltre 23mila€ con la promessa che non appena arriverà l’alta stagione ripristinerà il deposito.

«La proprietà accordò il piano, ma feci l’errore di non mettere tutto su carta», prosegue l’imprenditore. «A Febbraio del 2015 – spiega – con le mensilità di Gennaio e Febbraio non pagate, in barba al patto di fiducia, la proprietà mi intima lo sfratto. Lì per la prima volta ho capito che c’era una forte determinazione a strapparmi la struttura al minimo sgarro e ad usurpare tutte le spese sostenute. Mi faccio aiutare da amici e parenti e entro il termine stabilito risolvo il debito e trattengo la struttura».

I primi successi, poi la crisi: e un canone d’affitto che continua a crescere

Finalmente, a quel punto, la sorte sembra girare, nonostante il pessimo inizio. L’alta stagione primaverile del 2015 mantiene le premesse e il business decolla permettendo all’imprenditore di recuperare il terreno perso. La parentesi dura però poco. Gli anni seguenti non vanno allo stesso modo: gli incassi diminuiscono, il canone d’affitto “a scaletta” cresce sempre di più come previsto dal contratto senza contare che le tariffe alla vendita delle camere calano in virtù del numero eccezionale di strutture ricettive nate nel frattempo.

«La commercialista mi fece notare inoltre che il business non era del tutto “sano” perché il canone di locazione valeva ormai il 50% del fatturato», continua l’imprenditore. In pratica, tolte le spese, il margine era sottilissimo. «Così nella seconda metà del 2017 iniziai con le mie richieste di riduzione del canone di locazione che vennero assolutamente respinte. La frase più ricorrente fu: “Esiste un contratto e lo devi rispettare! Se non ce la fai a pagare puoi sempre lasciare l’immobile, fa parte dei rischi d’impresa”. Altri locatari sono stati sicuramente più fortunati. Decine di migliaia di essi hanno ottenuto una riduzione del canone di locazione e di poter pagare con il credito di imposta». 

La richiesta, tranne un blocco di soli sei mesi, viene respinta. Ma nel 2018 qualcosa cambia. Ci spiega l’imprenditore: «Inaspettatamente ad inizio anno la proprietà mi chiama e mi dice che ci ha pensato bene alla mia richiesta e che mi vogliono accordare una riduzione del canone. Cosa che mi parve subito assolutamente sospetta. Mi fu prospettata una riduzione ma per soli 12 mesi contrariamente alle richieste che avevo sempre fatto (una riduzione secca fino a scadenza contratto), e la trattativa venne impostata in maggior parte su scambi email intervallati da qualche telefonata e qualche incontro (pochi). Qualche giorno prima delle firme per la riduzione del canone la proprietà mi comunicò, solo telefonicamente, che avevano accettato la riduzione fino a fine contratto come da mia richiesta iniziale. Pensai che la mia insistenza era stata premiata. Col senno di poi invece si è rivelata solo una trappola».

Gli attacchi 

«A poco più di un anno di distanza iniziano gli attacchi», ci dice ancora l’imprenditore. «A metà Aprile ricevo una raccomandata da un Avvocato incaricato dalla proprietà». Nella lettera si fa riferimento a presunte difformità contrattuali e il legale non esita a paventare possibili “indagini da parte della Procura”. E così si va avanti per un altro anno fino a quando l’arrivo della pandemia cambia per l’ennesima volta le carte in tavola. 

«Ancora oggi però mi faccio delle domande. Perché mi hanno prima concesso una riduzione del canone e successivamente mi hanno attaccato? Quale era il piano per cacciarmi? Possibile che lo avessero architettato così bene da non avere nessun timore fino al punto di minacciare indagini della procura? E soprattutto, come mai il Covid gli ha fatto mollare quel piano? Fatto sta che dal covid in poi sono scomparse le minacce di indagini da parte della Procura della Repubblica», racconta l’imprenditore.

Lo scoppio della pandemia

Se ci fosse o meno un disegno ben preciso in tutta questa vicenda – i fatti ve li abbiamo raccontati – non lo sapremo mai fino in fondo perché l’arrivo del Covid ha chiuso in anticipo la partita. 

«Sono riuscito a pagare i canoni  di Febbraio e Marzo 2020 ma non quelli successivi. Pena il fatto che da un anno e mezzo non abbiamo praticamente turisti, mi sta portando via tutto perché non ci sono entrate a sufficienza per poter far fronte ad un canone di locazione che è di oltre 7000€/mese (la proprietà si trova a pochi passi da piazza di Spagna). Risultato? Allo scadere del secondo mese di mancato pagamento i locatori, nel maggio 2020, mi hanno intimato lo sfratto e siamo finiti in tribunale. Consigliato dal mio legale abbiamo chiesto ai locatori clemenza visto il periodo pandemico, di venirci incontro con una riduzione del canone di locazione, ma ci è stato risposto che su tali entrate era basato il loro tenore di vita».

Morale della favola: oltre all’imprenditore che chiuderà l’attività altri lavoratori perderanno il loro posto di lavoro così come altre aziende perderanno commesse per i servizi di collaborazione.

«Abbiamo proposto al locatore anche la possibilità di cedere il credito di imposta maturato con il pagamento del mese di marzo 2020, ma anche su questo abbiamo trovato un muro invalicabile. Voglio precisare che prima della pandemia sono stato sempre un pagatore esemplare, puntuale ed impeccabile. Così come sono stato oculato nella conduzione dell’attività (brand reputation 9.0/10), senza mai contrarre alcun debito».

In Tribunale

L’ultimo tassello di questa storia è la battaglia legale. «Ci si lamenta di come funziona la giustizia in Italia, per quello che mi riguarda il mio giudizio non è univoco», spiega l’imprenditore. 

Un primo Giudice non ha infatti concesso l’ordinanza provvisoria di rilascio del bene ma un secondo sì: «Abbiamo chiesto per due volte la revoca di ordinanze, entrambe respinte, con motivazioni che non hanno trovato fondamento nelle risultanze della causa, né nei documenti che ho fatto depositare, alla luce dei quali sarei creditore del mio locatore di una somma superiore ai 95.000,00 per essere stato costretto a pagare un canone di locazione superiore al dovuto. Il mio legale mi ha rappresentato che la giustizia deve fare il suo corso e che, in caso di sconfitta si potrà ricorrere in appello, ma se questo accadesse a quale prezzo, con quali conseguenze?»

L’imprenditore chiosa infine con un appello contenuto anche in una lettera indirizzata a Mario Draghi: «E’ mai possibile che il legislatore non sia stato in grado di intervenire in modo efficace per salvare da una parte una attività nel settore turistico che andava bene e dall’altra salvaguardare il tenore di vita dei locatori? So che sto parlando anche per altre migliaia di casi che si trovano nella mia stessa condizione generale, ovvero una pandemia che ha distrutto una attività economica fatta su suolo in affitto con locatori che non vogliono rinunciare ai canoni pre-pandemia. Ma poi ogni caso ha le sue specificità e i suoi distinguo. E il mio mi pare davvero differente».

 

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