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Storia di una nevrosi: ansia da social

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Inconsapevole dipendenza

Diciamoci la verità, tutti noi predichiamo bene e razzoliamo male: lo smartphone è attivo per gran parte della giornata e fa quasi parte del nostro corpo.

Non tutti però siamo consapevoli dell’eccessivo utilizzo, delle ore che ci assorbe, degli spazi che ci toglie e del contatto reale che ci nega.

«Le giornate iniziano con il suono della prima notifica, non ho bisogno di grandi gesti per comunicare».

La prima cosa che facciamo appena suona la sveglia – rigorosamente impostata sul cellulare – è metterci a scorrere le home dei vari social: questa la prima immagine che il nostro cervello immagazzina, l’input per iniziare la giornata.

Il tempo accelerato, la frenesia dei consensi

Quante volte apriamo e chiudiamo WhatsApp? e quanto siamo veloci nel postare, commentare e controllare i consensi ricevuti?

Il tempo scivola via senza nemmeno renderci conto, ma non è importante quanto invece il mostrarci agli altri in piena forma.

Sentiamo il nostro spazio perdere i confini, possiamo essere ovunque in Italia e oltre in un finto senso di onnipotenza.

«Vivo freneticamente, voglio monitorare, capire e vedere il riflesso delle azioni che compio attraverso i like che si accumulano: mi fa sentire visto».

«Per lavoro sono in giro tutto il giorno, posso raccontare tante cose. La mia piccola realtà trasportata oltre il confine, non esistono limiti».

«Non uso guardare l’orologio, il tempo è scandito dalle immagini che scorrono sulla mia home e dai messaggi nel gruppo chat: questa è l’ora del caffè».

Insoddisfazione lavorativa

Le vecchie professioni ci sembrano banali, statiche. Il nostro lavoro ci appare pesante, ci sentiamo inappagati, non realizzati.

Allora proviamo a promuovere noi stessi attraverso il web, mischiando vita professionale e privata, correndo il rischio di rompere i limiti della sfera intima.

«Il mio è un contesto lavorativo stimolante, siamo un’équipe fatta di giovani creativi, curiamo le relazioni con partner e organizziamo eventi dove decine di persone partecipano divertendosi e conoscendo tanta gente».

La vista: senso unico

L’utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione richiede un solo senso: la vista. Il cervello non si serve dell’udito, dell’olfatto, del gusto e soprattutto del tatto.

Quando viene a mancare una grossa parte dei nostri sensi i messaggi si alterano, siamo chiusi in una bolla, guardiamo il mondo dietro un vetro e la comprensione di noi stessi e degli altri si blocca.

«Il mio senso principale è la vista: aspetto il piatto, faccio la foto e condivido. Voglio mostrare a tutti quello che faccio, tenere tanti occhi nelle mie esperienze, un palcoscenico virtuale».

Davanti a un bel piatto di pasta cosa facciamo, assaggiamo o fotografiamo?

Amici reali o virtuali?

L’amicizia per crescere deve essere coltivata, deve crearsi uno spazio di confessioni, di leggerezza, di sincerità e affetto.

Attivare dirette, fare selfies, scriversi stando allo stesso tavolino del bar, ci toglie del tempo necessario per il benessere di un incontro piacevole.

Quante volte vediamo al ristorante i commensali tenere la testa bassa sullo schermo?

«Mi ritrovo con gli amici per un aperitivo. Facciamo due tre foto in gruppo e poi attivo la diretta rispondendo ai commenti live».

La solitudine dei tempi moderni

Nonostante i tanti amici sui social ci sentiamo soli. È una sensazione molto diffusa, la tristezza indefinita che non sappiamo giustificare: perché non riusciamo più ad essere felici per le piccole cose?

La vita è diventata lo spettacolo del miglior post, della finta ricchezza, degli aperitivi, dei viaggi, dei tanti amici e dell’amore ostentato.

«Assorbo molteplici stimoli visivi, mi attraversano come una corrente. Mi piace questa sensazione: non sono mai solo».

Il buio dello schermo

A fine giornata ci stacchiamo dal nostro amato cellulare, lo rimettiamo in carica per un nuovo giorno.

E le nostre emozioni: piatte come lo schermo.

«Il telefono è diventato bollente, le dita non smettono di muoversi  quando lo schermo all’improvviso si spegne: la batteria è andata».

Clicca per vedere la storia di Lello 

 

Se volete raccontarmi le vostre storie per sciogliere insieme qualche nodo disfunzionale, scrivete all’indirizzo: psicologia@ilcorrieredellacitta.it

Vi aspetto.

Dott.ssa Sabrina Rodogno

 

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