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Torvaianica, baracche e insediamenti di fortuna, il nostro viaggio sul litorale. Le storie di chi ci vive: «C’è chi sta peggio di noi»

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E’ quasi un mondo parallelo, quello di cui nuovamente ci vogliamo occupare a distanza di qualche tempo dalla nostra ultima inchiesta. Sono gli invisibili, quelli che in realtà almeno una volta tutti abbiamo incontrato, ma che poi vengono inghiottiti nel nulla, salvo poi ricomparire più acciaccati, più disillusi, più incattiviti o più impauriti. In questo numero parliamo del litorale. Torvaianica, grazie alla sua conformazione geografica, permette diversi insediamenti di senzatetto. Da quando le entrate dell’ecomostro in piazza sono state murate, non consentendo più l’ingresso di stranieri che vi trovavano alloggio, sono state ripristinate le baracche di fortuna dislocate in mezzo ai campi in vari punti sia in centro che in periferia.

Da Il Corriere della Città – GIUGNO 2021

Torvaianica: il mondo parallelo (quasi) ‘invisibile’

Le baraccopoli sono suddivise per nazionalità: marocchini da una parte, polacchi da un’altra e così via. Ce ne sono tante, nascoste, invisibili soprattutto per chi non vuole vedere. Abitate da gente perbene o da persone borderline. Oppure da chi non vuole o non può farsi vedere in giro. L’ultima volta ci eravamo occupati del caso a marzo dello scorso anno, poco prima del lockdown. Ma nel corso di questo lasso di tempo nulla è cambiato. Quella che avavemo descritto era un’immagine triste, fatta di uomini e donne, anche piuttosto anziani, frugare alla ricerca di qualcosa da mangiare. Persone che non chiedono soldi, non si avvicinano a nessuno, non sostano davanti ai supermercati, non chiedono l’elemosina, anzi, al contrario, si allontano per la vergogna non appena qualcuno entra nel loro raggio visivo. Sono quelli che nessuno vede.

E’ l’altra faccia della città, l’ennesima. C’è quella della gente “normale”, che ha un lavoro e porta a casa uno stipendio, una famiglia, e riesce ad arrivare alla fine del mese senza grossi problemi, tra gli alti e bassi che tutti hanno. C’è quella “nascosta”, che emerge dalle inchieste delle forze dell’ordine, che ci fa scoprire un sottobosco di mafia, di suddivisione del territorio, di malavita, estorsioni, traffici droga e tanti, tanti soldi. E poi ci sono i disperati, quelli che vivono in strada, nelle strutture abbandonate, nei campi e sotto i ponti, ubriacandosi con i pochi spicci che riescono a rimediare ogni giorno. E infine ci sono loro, quelli che nessuno vede. Oggi siamo tornati ad occuparci di loro: ma cosa si prova a vivere in baracche di due metri quadri, con un materasso a terra, oppure sotto a un ponte? Ce lo siamo fatti raccontare da due dei protagonisti.

La storia di Florian

Florian, polacco di 48 anni, vive al “Bridge Hotel” da circa 4 mesi e divide l’alloggio di fortuna con un uomo, suo connazionale, di 75 anni. È arrivato sotto al ponte dopo che aveva dovuto lasciare in tutta fretta l’appartamento affittato da una coppia di amici che lo avevano ospitato dopo che era stato sbattuto fuori casa dalla sua compagna. Ma ecco la sua storia.

Ho perso tutto un anno fa, per colpa dell’alcol e della droga. Spendevo molti dei soldi che guadagnavo con il mio lavoro di piastrellista per acquistare cocaina e per bere. La mia compagna alla fine non ce l’ha fatta più. Ma me l’ha fatta pagare, perché prima di buttarmi fuori di casa ha prosciugato il conto che avevo alla posta, togliendo tutti i miei risparmi. Poi ha fatto le valigie anche lei ed è tornata in Polonia, lasciandomi da solo, senza soldi e senza casa”. Dopo la separazione Florian continua a lavorare, ma molto meno, perché nel frattempo si fa male a una gamba.

Una coppia di amici si offre di ospitarlo a pagamento, sempre a Torvaianica. Sono entrambi lavoratori, ma entrambi sono tossicodipendenti e spendono tutto ciò che guadagnano in cocaina. Se all’inizio va tutto bene, dopo qualche mese il rapporto tra i tre inizia a guastarsi: la coppia è in arretrato con il pagamento dell’affitto proprio perché ormai l’uso di sostanze stupefacenti è diventato per loro prioritario rispetto a ogni altra cosa. I soldi che dà all’amico per la sua parte di canone, infatti, vengono girati per comprare la cocaina.

“Ogni pezzo costa 40 euro, se te ne fai due sono 80 auro… è così che ti rovini”. I tre sono costretti a lasciare in tutta fretta l’appartamento: la coppia va Roma, da altri amici, mentre Florian, che non sa dove andare, resta a Torvaianica, in strada, o meglio sotto al ponte. Lui lavora quando può, ma ci sono alcuni clienti che non lo pagano e lui è sempre a corto di soldi, che spende ancora per le sue dipendenze. Non può di certo permettersi una casa in affitto. “Mi sono reso conto di aver toccato il fondo. In quel momento ho cercato di smettere con tutto, con la droga e con l’alcol. Ogni mattina, quando mi sveglio, mi sento male. Vorrei ricominciare ad avere una vita normale, me lo sono ripromesso un sacco di volte, ma bevo ancora, ci ricasco sempre perché la vita non mi dà speranze, trovo conforto solo così”.

Com’è vivere sotto questo ponte?

“Guarda con i tuoi occhi che casino che c’è. È brutto. È pieno di roba che porta l’uomo che vive con me: accumula di tutto”.

Adesso stiamo andando verso la bella stagione, ma quando fa freddo come fai?

“Ti butti qualche coperta in più addosso e il freddo passa”.

Quali sono le tue speranze?

“Mi piacerebbe ricominciare la mia vita da capo, diventare un uomo nuovo, guadagnare onestamente qualche soldo e andarmene nel mio paese, in Polonia”.

Perché non ci provi?

“Il mio destino è segnato, ormai… quando imbocchi una certa strada, è difficile uscirne. Quello che penso fin troppo spesso è che sto aspettando solo il momento in cui morirò. E di certo non di vecchiaia…”

Florian poi parla del suo ‘coinquilino’, il 75enne sordo. È un accumulatore seriale, che porta qui sotto di tutto. Ma come si mantiene?

“Vende il rame, riesce pure a guadagnare abbastanza bene. Gli danno 30 euro ogni 10 chili di rame”.

E dove lo trova?

“Lo raccoglie in giro, nelle cose che la gente butta e che lui porta qui e smonta. Solo che, dopo aver tolto il rame, tutto il resto rimane qui, accatastato”.

Oltre ai materassi c’è un fornelletto, dove i due polacchi si cucinano qualcosa da mangiare. Di certo la sicurezza è un optional, vista la presenza della bombola a gas.

“Il cibo non ci manca. Alla fine non stiamo troppo male. C’è sicuramente chi sta peggio di noi”.

Dove stanno, quelli che stanno peggio?

“Sulla spiaggia, sotto le barche. Dormono là. Loro stanno peggio di me”.

La storia di Fadoul

Fadoul arriva dal Marocco. Vive in Italia da quasi vent’anni, si arrangia vendendo abiti: sulla spiaggia d’estate e quando capita, lavorando sui campi. La sua ‘casa’ è una baracca in mezzo alla vegetazione, tra via Zara e il campo sportivo. Non ha un cellulare, il suo unico mezzo di trasporto è una vecchia bicicletta. Ma è un uomo mite e sorridente. “Il cibo non mi manca mai”, dice, “ogni giorno all’ora di pranzo la Caritas ci fa trovare da mangiare ai giardinetti di piazza Italia.

E, sempre lì, alle 19:00, la Croce Rossa ci consente di cenare ogni sera, facendoci prendere cibo caldo. È davvero confortante, per chi come me non ha niente”. E che sia davvero niente ce ne accorgiamo quando mi porta a vedere dove abita. Insieme a Fadoul ci addentriamo nella vegetazione: dopo alcune decine di metri iniziano le prime baracche. “Qui ci siamo noi marocchini”, spiega. “Questa è la tua?”, gli chiedo indicandone una. È ben tenuta, minuscola, dentro ci sta a malapena un materasso, un fornello e una sedia con sopra alcuni oggetti personali. Davanti c’è un secchio della spazzatura. C’è scritto ‘vetro’, ma qui ovviamente non si fa la raccolta differenziata. Sono però stupita dal fatto che, al contrario dei tanti accampamenti visti in precedenza, questo appaia abbastanza pulito: non ci sono cumuli di rifiuti, non ci sono cataste di oggetti che danno la sensazione di sporco e abbandonato. Si vede la povertà, ma si respira anche un senso di dignità tra queste poche cose. “No, più avanti”, risponde Fadoul.

Continuiamo a camminare. Altre baracche, simili, nelle stesse condizioni. Quella del mio accompagnatore è l’ultima, circondata dall’erba alta e dal canneto. Quando fa molto freddo bisogna mettere tante coperte, ma questo è un buon posto. “Non vogliamo andare via da qui”, racconta, il mio unico timore è che qualcuno venga a picchiarci solo per dispetto o che il Comune ci mandi via. L’alternativa sarebbe la strada, che è molto peggio. Così almeno abbiamo un tetto sulla testa. Non possiamo permetterci di pagare un affitto, quel poco che guadagno io lo divido spendendone una parte per me e una parte mandandolo in Marocco alla mia famiglia”.

Sei sposato?

“No, ma ho i miei genitori e i miei fratelli e sorelle, lì, che stanno peggio di me, quindi li devo aiutare per quello che posso”.

Quando sei venuto in Italia immaginavi così la tua vita?

“Speravo qualcosa di meglio, ma ormai la mia vita è questa, cosa posso farci? Non mi lamento, desidero solo che non peggiori. Certo che mi piacerebbe avere qualcosa di più, come tutti, ma mi faccio andare bene anche questo. Io almeno finora sto bene in salute, riesco a cavarmela”.

Un sorriso rassegnato accompagna le sue parole. Insieme andiamo nei pressi del campo sportivo. Lì ci salutiamo: Fadoul prende la sua bicicletta per andare in piazza, lo aspettano i volontari della Croce Rossa con la cena.

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