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Psicologia, cyberbullismo: io parlo! La testimonianza di una ragazza di Pomezia

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La testimonianza mi arriva diretta e senza troppi giri di parole, subito dopo un mio scritto sulla funzione degli «osservatori» nel fenomeno della violenza virtuale, come anteprima del seminario che si terrà il 3 Maggio presso la biblioteca Ugo Tognazzi.

 

“Io parlo! fai pure il mio nome così si vergognano: sono Alessandra Duma».

Ho conosciuto Alessandra nel Febbraio scorso durante le riprese di «Psicovillage, anime nevrotiche» nell’episodio dedicato al cyberbullismo, dove scegliamo che lei interpreti la bulla di turno: motivando la sua voglia di contribuire a combattere questa forma subdola di violenza «perchè è capitata spesso qui a Pomezia».

 

“Hanno preso un post di (…) dal suo gruppo e l’hanno passato in Pomezia bella, da lì inizia la presa in giro, divertendosi a storpiare anche il cognome della vittima”.

“Io non faccio più parte di questi gruppi, ma ho saputo attraverso terzi quello che stava accadendo».

Correda la sua testimonianza con una serie di screenshot e dai vocali che mi invia emerge chiaramente la sua rabbia, il non poter affrontare le persone oltre lo schermo.

I fatti risalgono al Dicembre 2017, quando da un post di natura informativa pubblicato in Gennaio 2017, parte un copia e incolla che salta da un gruppo all’altro, fino a giungere appunto in «Pomezia bella» un gruppo dove poter trattare qualsiasi argomento riguardo la cittadina e le zone limitrofe.

Lo sberleffo ha una durata di circa 12 mesi.

 

«Mi hanno detto che questa persona anche sul suo profilo personale molto spesso lo bullizzava, insomma, già da tempo prendeva in giro (…)».

«Non ho potuto segnalare perché non faccio parte di quel gruppo, ma ho fatto segnalare da altri amici miei. Gli dicevano di farla finita, ma non l’hanno tolto il post».

Il passaparola tra gli amici di Alessandra e di (…) rende più visibile il «giochetto infantile degli adulti» fatto di battute e risposte: ciò amplifica la presa in giro e dunque, la sgradevolezza nella vittima che subisce, suo malgrado.

 

«Non potendo fermare la situazione in Pomezia bella, ho contattato uno dei moderatori di Sei di Pomezia se… poiché la stessa bulla ne fa parte». 

Allega al materiale anche il contenuto di quella conversazione:

«Io conosco (…) ha una grande sensibilità. Ma se una di 50 anni fa la bulla, ai ragazzini cosa vogliamo rimproverare? C’è gente che si ammazza per queste cose».

Il moderatore in questione la rassicura «se continua la banno». Da quel messaggio la storia sembra cessare.

Alessandra ha reagito, non ci sta ad essere spettatrice passiva di una situazione simile e quando le chiedo come mai la vittima in questione non ha denunciato, mi risponde:

«Solo una volta ha risposto, ma in maniera molto pacata e tranquilla come è lui».

 

E’ cyberbullismo?

Spesso le persone scrivono status o commenti offensivi su Facebook dimenticando che le loro parole hanno un effettivo valore giuridico: la facilità con cui è possibile pubblicare ciò che si vuole non significa piema libertà di poterlo fare. 

Nel caso specifico ho verificato le fonti di tutto il materiale a me inviato che va dal Gennaio al Dicembre 2017. I termini offensivi sono ad opera del «bullo» e dei  suoi «sostenitori»:

«santoiddio che idiota!!!!; questo è un devastato; che sbandato questo; volevo farglielo venire duro; sto depresso mi ha chiesto anche l’amicizia; lo gonfio; la tristezza e la repressione, lo schifo vero; ha il culo infuocato; glielo hanno messo al culo?… è un autodidatta; sta rovinato; si intuba da solo?; si infila i cavi della corrente…; vergognosamente pietoso; je da uno schiaffo in faccia alla decenza; è un bollito; a me mi fa tenerezza; e che razza sarebbe?; (…) il mio sogno erotico».

 

Altro materiale evidenza la partecipazione di diversi «sostenitori della vittima»:

«Come mai ce l’hai tanto con lui? spesso lo bullizzi…che tristezza prendere in giro una persona… ci riteniamo adulti ma a me sembra di no; Ancora a prendere per il culo (…)? se ti arriva una querela te la meriti! se si continua a prendere per il culo (…) io esco dal gruppo».

 

A questo punto si crea un tutti contro tutti:

«L’ennesimo gruppo inutile di befane annoiate, ragazzini analfabeti, profili fake e ritardati mentali!!!!! uno più stupido dell’altro!!!! questo social è diventato uno schifo e basta…».

«Sembrate solo una massa di deficienti e basta ‘,-)».

«Ti sfanculi da solo o ti buttiamo fuori noi????».

Non riporterò oltre un contesto di natura puerile, in pieno stile «Asilo Mariuccia».

Ritornando alla domanda iniziale: è cyberbullismo? Mi pare che gli elementi ci siano tutti, a sostegno di ciò riporto la definizione di una delle sette forme di cyberbullismo:

«Harassment (molestie): messaggi scortesi, offensivi e insultanti inviati ripetutamente».

(Smith et. al., 2006)

 

Ci sono gli estremi per una denuncia?

Commette il delitto di diffamazione (art. 595 c.p.) chi offende l’altrui reputazione in assenza della persona offesa e sempre che siano presenti almeno due persone.

Anche a questa domanda la risposta è sì: le persone che deridono la vittima sono prevalentemente due in presenza di altre che partecipano a vario titolo.

 

Diffamazione anche senza fare nomi

«Secondo la Cassazione, per diffamare una persona non occorre fare il suo nome; basta poterlo intuire con indizi semplici. Non è necessario, in altre parole, che la vittima sia precisamente e specificamente nominata, a condizione però che la sua individuazione avvenga sulla base del contesto come, ad esempio, le circostanze narrate, i riferimenti personali e temporali, ecc. […]

Insomma, le semplici allusioni possono costituire diffamazione se il nome non è indicato ma è desumibile dal contenuto della frasi: in pratica, perché scatti la responsabilità penale a causa di una frase diffamatoria, è necessario specificare le generalità (nome e cognome) della vittima o, comunque, elementi sufficienti da consentire agli altri di individuarla (ad esempio, il riferimento al «vincitore di un concorso», al «collega che ha ottenuto la promozione», al «condomino che non ha ancora pagato le quote», ecc.)».

(Laleggepertutti.it)

 

Inoltre, nel caso messo in evidenza dalla testimonianza, il nome della vittima è sia storpiato sia riportato per intero.

 

Postare uno screenshot è reato?

«Per quanto concerne il gruppo Facebook bisogna far riferimento alle caratteristiche specifiche di quel singolo gruppo. È pubblico? Privato? Segreto?

Solo nel caso in cui il gruppo sia pubblico lo screenshot potrà essere pubblicato in maniera lecita.

Il gruppo pubblico, infatti, ha impostazioni che permettono a tutti gli utenti di vedere sia gli iscritti, sia le conversazioni.

In tutti gli altri casi la pubblicazione di una conversazione o di un post pubblicati all’interno del gruppo violerebbe queste impostazioni (con conseguenze anche sulla privacy dei singoli soggetti)».

(Avv. Federica De Stefani).

 

Nello specifico lo screenshot è stato effettuato da un post scritto dalla vittima in un gruppo pubblico, riportato in un gruppo chiuso, appunto «Pomezia bella» e usato come fonte di derisione.

 

E’ un passatempo o un reato?

Questa è la visione dei fatti di un protagonista attivo:

«No è un gruppo mirato a cazzeggiare, un gruppo libero dove anche leggendo due battute ti distrai un attimo da qualche impegno o pensiero lavorativo. Tutto qui, se non ti piace hai tutta la facoltà di cancellarti».

 

«Non è possibile, infatti, declinare a meri strumenti ludici quelli comunicativi di massa. In particolare, tutti i social network in cui si raduna telematicamente la comunità sociale hanno alla base l’elaborazione di una vera e propria identità digitale virtuale, tuttavia veritiera e soprattutto corrispondente alla personalità reale dell’individuo».

(Diritto.it)

 

La violenza negli adulti

IMMIGRATI DIGITALI: generazione cresciuta senza il multimediale, vecchia abbastanza da aver frequentato il mondo di «prima», giovane per adattarsi al «dopo».

La definizione data a «noi adulti» cresciuti senza la virtualità, presuppone anche una massiccia dose di responsabilità, soprattutto, quando si tratta di soggetti ben oltre gli «anta».

Il caso testimoniato da Alessandra Duma porta l’attenzione su un aspetto fondamentale: che esempio diamo ai giovani?

Un gioco del genere fino a che punto può essere divertente? E tutti i moderatori coinvolti sanno di quanto accaduto? Sarebbe opportuno fare attenzione ai membri che popolano questi gruppi, poichè la responsabilità è di chi agisce violenza, ma anche di chi osserva.

In ultimo invito tutti coloro «vittime del passatempo altrui» a denunciare.

 

 

Se volete raccontarmi le vostre storie per sciogliere insieme qualche nodo disfunzionale, scrivete all’indirizzo: psicologia@ilcorrieredellacitta.it

Vi aspetto.

Dott.ssa Sabrina Rodogno

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