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Roma: dopo 6 giorni di pronto soccorso viene ricoverata per problemi cardiaci, ma prende il Covid in reparto

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E’ una storia allucinante, eppure non unica, quella accaduta in un ospedale di Roma, in zona Aurelio, a una donna di 59 anni, residente a Pomezia. A salvarla – contrariamente a quanto successo pochi giorni fa all’87enne Franco – probabilmente è stata la sua età, relativamente giovane, che le ha consentito di reagire a un male che, quando è entrata nel nosocomio, non aveva. Ma ecco cosa è accaduto, raccontato dalla figlia della donna.
 
“Siamo a Roma, in una nota struttura ospedaliera in zona Aurelia, è il 30 dicembre. Mia madre entra in pronto soccorso con un referto cardiologico, stilato la mattina stessa, che 
richiede l’urgente ricovero per un’ipertensione polmonare in atto e altre probabili complicazioni a livello cardiologico, tali da dover considerare una tac a stretto giro”, spiega la giovane.
Tra l’attesa straziante di avere qualche notizia, iniziano a sottoporre la paziente ai primi tamponi di routine, che per fortuna risultano negativi per tutti i 6 giorni di pronto soccorso. Già, perché la 59enne resta ricoverata nel pronto soccorso per 6 giorni a causa della mancanza di posti letto non solo in quella struttura, ma anche nelle altre della Capitale, almeno secondo quanto viene riportato ai familiari della donna. 
“Il 4 di gennaio finalmente, dopo svariati solleciti da parte nostra, finalmente la portano 
nel reparto di medicina – racconta la figlia – e da li per i successivi 10 giorni, come da prassi, la sottopongono ai vari e continui tamponi, che risultano sempre negativi“.
Lo stato di salute della paziente è altalenante, ma dopo 15 giorni di ricovero la donna inizia ad avere dei sintomi facilmente riconducibili al Covid come febbre superiore a 37,5, brividi di freddo e mal di testa e mal di gola. Nel frattempo le arrivano alcune conversazioni dal corridoio: qualcuno sostiene che nel reparto ci siano dei sospetti positivi.
“Lo stesso giorno della comparsa dei sintomi, mia madre viene sottoposta nuovamente al tampone – spiega la figlia – così come anche gli altri pazienti delle altre stanze, ma né io né il resto della famiglia veniamo informati di quello che sta accadendo. Trascorre la notte e al mattino seguente veniamo informati direttamente da mia madre che sta effettuando 
nuovamente un altro tampone: a questo punto ci insospettiamo, soprattutto per per la vicinanza delle due prestazioni effettuate, ma non solleviamo in alcun modo la questione e  non mettiamo in dubbio la bontà dell’operato dei medici e del personale dell’ospedale. Alle ore 12:30 del 16 gennaio, come di consueto, mi accingo a contattare telefonicamente il reparto per conoscere le ultime condizioni di salute di mia madre, ma il medico, nonché primario del reparto, mi comunica serenamente che la situazione cardiologica non è più la questione primaria da dover trattare, che per quanto ne concerne l’aspetto polmonare la stanno continuando a trattare con la terapia adeguata, sperando che questa porti buoni risultati poiché mia madre ha una situazione complessa abbastanza acuta, in parte critica”.
 

Positiva al Covid: come ha fatto a contagiarsi in ospedale?

“Trascorrono ulteriori due ore – prosegue la figlia – e ricontattiamo il reparto per chiedere informazioni sulla saturazione di ossigeno di mia madre, poiché lei telefonicamente ci aveva comunicato che era bassa e quindi avevano ritenuto opportuno somministrarle l’ossigeno. A risponderci è lo stesso dottore della mattina, il quale ci dice che mia madre necessita di ossigeno perché è risultata positiva al Covid. Per noi da quel momento inizia il terrore: pur non essendo anziana, mia madre ha una situazione di salute non buona. Inoltre, sono furiosa per l’aspetto psicologico di questa vicenda: è stata lasciata sola per 18 giorni, senza contare che è entrata per una patologia che è sì complessa, ma che nulla ha a che vedere con il Covid, e si è ritrovata positiva al Coronavirus”. Come ha fatto la donna a contagiarsi in un ambiente che dovrebbe essere protetto?
“Solleviamo la questione al dottore, recandoci subito in ospedale, increduli, cercando di 
capire come sia possibile, dopo un anno dall’inizio della pandemia, trovarsi in ospedale in un reparto non Covid a contrarre il virus inaspettatamente, mettendo così a repentaglio ulteriormente le condizioni di salute di persone entrate lì per tutt’altro e chiedendo inoltre la motivazione per cui non siamo stati avvisati subito della positività di mia madre”.
Cosa le hanno risposto?
“Che al primo tampone nulla era ancora certo e che al secondo avrebbero comunicato la positività alla paziente, dunque non a noi familiari, che oltretutto nei giorni precedenti ci eravamo recati in ospedale per il ritiro degli indumenti e degli effetti personali di mia madre con i quali siamo stati a contatto serenamente. Nelle ore successive siamo venuti a conoscenza del fatto che nel reparto dove era ricoverata mia madre c’era un focolaio, con ben 13 persone positive, messe in attesa di trasferimento presso un’altra struttura ospedaliera adibita Covid center. Il trasferimento è avvenuto a notte fonda: parliamo di pazienti con difese immunitarie basse, trasportati in ambulanza alle 3 di notte, mentre fuori le temperature sfioravano 0 gradi. Vi sembra normale?”
No, non ci sembra normale, soprattutto prendere il Covid in ospedale, entrare sani e uscirne malati, se non, come nel caso di Franco, addirittura morti. E non si può dire “sono cose che possono capitare”: qui c’è in gioco la vita delle persone, un paziente sano non deve ammalarsi in una struttura ospedaliera. Per questo oggi in merito alla vicenda la famiglia ha sporto una formale denuncia, anche perché ha scoperto che la donna, dagli ultimi esami fatti nel nuovo ospedale, risulta avere (cosa che non aveva in precedenza) un versamento pleurico bilaterale: un aggravamento delle sue condizioni che, senza il Covid, non ci sarebbe stato.
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