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Roma. ‘Ho curato centinaia di polmoniti, ma il Covid è un’altra cosa’: il racconto di un medico che ha sconfitto il virus

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Il Coronavirus, l’ignobile virus con il quale cerchiamo di “convivere” e combattere da quasi un anno, si è portato via tante vite. E se non è riuscito a farlo, quelle vite le ha comunque stravolte. Oltre un milione i casi di positività in Italia da inizio pandemia e in questi mesi a contagiarsi sono stati anche medici e infermieri, da sempre in prima linea sui campi di battaglia. Valerio Sanguigni è un dottore romano, uno tra i tanti che ce l’ha fatta e che ha deciso di raccontare la sua sofferta “esperienza” con il Coronavirus. Un faccia a faccia con il virus, un viaggio nei reparti Covid compiuto da un medico che si è ritrovato a essere paziente. 

Il racconto del medico che ha sconfitto il Coronavirus

“Essendo in prima linea come responsabile di una UOC di medicina interna di 35 posti letto avevo messo in conto la possibilità di contagiarmi. Grazie ai nostri severi protocolli interni di reclutamento, filtro e gestione dei pazienti eravamo riusciti a curare, in questo momento così difficile, molti malati no Covid che non trovavano spazio in tante altre strutture, ormai dedicate solo al trattamento dei malati Covid, e anzi con orgoglio e fatica eravamo un punto di riferimento per molti pronti soccorsi. Poi un giorno di Dicembre è accaduto l’imprevedibile, tipico di questa malattia” – racconta su Facebook il medico.
 
Sì, perché improvvisamente, come è spesso accaduto, un focolaio di 10 pazienti positivi (entrati con tampone molecolare negativo) ha subito messo in allerta tutto l’ospedale. 
 
“E nonostante tutte le nostre protezioni (mascherine, camici etc), tutto il mio staff medico e metà di quello paramedico è rimasto contagiato – continua Valerio Sanguigni – Di qui la mia prima riflessione personale, che riassumerò dopo, come medico e ricercatore, e cioè quando la carica virale diventa forte, come nel caso di un luogo dove sono molti contagiati insieme, è veramente difficile proteggersi dal Coronavirus, perché si annida dovunque. Agli altri colleghi e paramedici è andata piuttosto bene… a me no…. Dopo le prime linee di febbre e la sensazione strana di estrema debolezza, assolutamente diversa da tutte le sindromi influenzali, ho eseguito un test rapido antigenico che è venuto positivo subito, confermato poi a un tampone molecolare eseguito due giorni dopo. Ho cominciato a curarmi subito con antibiotici, cortisonici ed eparina, ma ho capito che la malattia prendeva un brutta piega con picchi febbrili continui e tosse continua. Al settimo giorno, grazie anche a un mio collega e amico fraterno, Gennaro Martino, a cui devo forse la vita, un’ambulanza mi ha trasportato di sera all’ospedale militare del Celio, uno dei reparti Covid-19 migliori di Roma, e la TAC torace, eseguita di sera con difficoltà perché non riuscivo a trattenere neanche il respiro, ha confermato la diagnosi: polmonite interstiziale bilaterale sia alle basi che agli apici”. 
E’ qui comincia il suo racconto “da dentro”. Dentro quel reparto Covid così vicino alla terapia sub intensiva. Attaccato alla vita e a una macchina d’ossigeno. 
“Mi sono ritrovato in reparto COVID 19, un lungo corridoio vicino alla terapia sub-intensiva, ero un paziente a rischio. Di qui la seconda riflessione personale, non ho mai fumato, non ho patologie in corso, assumo integratori antiossidanti e vitamina da una vita (che in parte forse mi hanno aiutato nella mia prognosi), ma questa maledetta malattia mi ha preso in pieno e in pochi giorni ha colpito i miei polmoni. Sono stato curato da una squadra di medici e infermieri vestiti con tute da marziani con maschera e doppi guanti che più che eroi, definisco uomini e donne con un dedizione e una passione assoluta alla cura dei malati e un coraggio unico, di cui dovremmo andare fieri. La maschera a ossigeno con il gorgoglio dell’acqua del filtro ha accompagnato ogni istante, notte e giorno delle due settimane che ho passato in ospedale insieme, al monitor accanto al mio letto al cui saturimetro collegavo il mio dito spesso per studiare la mia saturazione di ossigeno e capire se le cose andavano meglio o peggio. Perché così si vive in un reparto COVID, dipendenti dall’ossigeno, dai farmaci e nella speranza di intravedere un segnale per respirare e stare meglio. Ma ciò che fa di questa malattia un unicum, mai visto in 40 anni personali di esperienza come medico, è la sua assoluta imprevedibilità. E questa è la mia terza riflessione personale. Il COVID 19 non è una influenza come le altre…è altro…”
Il medico racconta di aver visto e curato tanti pazienti con polmoniti nel corso della sua carriera, eppure il Covid è tutt’altra cosa. Un virus imprevedibile, inaspettato, che ti sconvolge. 
Ho curato in questi anni centinaia di polmoniti, ho visto centinaia di pazienti lentamente e progressivamente guarire ma il COVID 19 è una altra cosa…. E’ assolutamente imprevedibile. Ho visto pazienti giovani (40-50 anni) con cui parlavo tranquillamente a distanza il giorno prima, mentre mi affacciavo dalla mia stanza, essere traportati di notte di corsa in terapia intensiva. Sentivo di sera i passi veloci, amplificati dai calzari delle tute degli infermieri che trasportavano di corsa la barella. Essendo all’inizio un paziente borderline a rischio di desaturazione improvvisa e quindi terapia intensiva, mi hanno sottoposto al trattamento ev con il Remdesevir. E sono convinto che questo farmaco mi abbia salvato la vita. Già dopo la seconda somministrazione ho capito di stare meglio. Non ho mai dormito la notte e quando stavo meglio, provavo a staccarmi l’ossigeno (che mi avevano già ridotto di percentuale in maniera evidente) camminavo di notte per pochi minuti lungo il corridoio per fare quello che chiamano il walking Test, cioè capire se camminando la mia saturazione di ossigeno nel sangue rimaneva buona. Durante quelle camminate leggevo i nomi “cancellati” sulla porta di alcune stanze e questa rimarrà una altra testimonianza indelebile come paziente e medico. Avrei tanti episodi di umanità unica da raccontare. Ho stretto un’amicizia speciale con i miei compagni di stanza che in certo senso si sentivano sicuri vicino ad un medico, anche se malato, per i consigli e le rassicurazioni che riuscivo a dare loro. Ho avuto un rapporto bellissimo con gli infermieri, ausiliari e i medici che mi hanno assistito e confortato in una maniera unica con professionalità, passione e dedizione assoluta, a cui dicevo di abbandonare ogni remora e trattarmi come un paziente, non medico. Dopo l’ultimo tampone negativo e l’evidente miglioramento clinico sono stato dimesso dopo 2 settimane e tornato a casa dove molto, ma molto lentamente mi sto riprendendo”.
“Vorrei lasciare a tutti solo tre brevi considerazioni, che derivano dalla mia esperienza prima come paziente che si è salvato (perché così è stato), poi come medico che con la sua esperienza ha cercato di cogliere quello a cui gli altri non pensano e infine come ricercatore che da anni pubblica e studia cercando di interpretare in maniera reale e critica quella che la scienza mette in evidenza.
1) Il Covid 19 “non è un semplice influenza” è un malattia che in quasi 40 anni di attività come medico in prima linea, io non ho mai visto e su cui ci vorrà del tempo per capire. Ha una contagiosità incredibile mai vista prima, ma soprattutto è assolutamente imprevedibile e temibile, può colpire in maniera violenta anche soggetti come me, apparentemente sani e protetti senza alcuna patologia preesistente, ed evolvere rapidamente in peggio. Sono convinto, e gli studi lo stanno mettendo in evidenza, che anche persone positive paucisintomatiche, se facessero una Tac torace troverebbero i segni di una compromissione polmonare
2) La quantità di pazienti giovani (dai 40 ai 60 anni) che talvolta peggioravano rapidamente che ho visto in corsia mi ha impressionato, il che vuol dire che la malattia è ormai ovunque e può colpire tutti. A mio modesto parere è più diffusa di quello che dicono le cifre ufficiali. E’ fondamentale utilizzare sempre le protezione con le mascherine (possibilmente le FPP2) ma è fondamentale il “vero distanziamento” evitare cioè gli ambienti chiusi dove c’è un alta carica virale e cioè riunioni e assembramenti (anche familiari) di più persone nello stesso ambiente. Non “togliersi mai la mascherina in ambienti chiusi” con altre persone intorno. Solo in questa maniera si puo’ evitare il contagio, perché più alta è la carica virale e più aumenta in maniera esponenziale la possibilità di contrarre con un virus che ha una contagiosità incredibile e un andamento imprevedibile in tutti. E ricordate che un tampone negativo non significa che la malattia non possa essere in incubazione, come il caso dei 10 pazienti poi postivi nel mio reparto mi ha insegnato….
3) L’unica vera possibilità di uscita, credetemi, è il vaccino. Lo sforzo che è stato eseguito a livello mondiale che ha riunito insieme i migliori ricercatori del mondo è una cosa straordinaria. Non ho alcuna intenzione di intervenire nella polemica dei no Vax. Se fosse possibile mi piacerebbe prendere per mano una persona scettica sul vaccino, vestirla con la tuta da marziano, con i calzari, con la maschera, con i doppi guanti e fargli fare un giro in un reparto Covid 19 per vedere negli occhi le persone a letto con maschera di ossigeno. E per quanto riguarda la temuta paura di allergie, da paziente che porta ancora addosso i segni della polmonite da Covid-19 e da medico che ha curato migliaia di reazioni allergiche mi limito a usare una semplice similitudine come spesso uso anche nei miei corsi di lezioni all’università. La eventuale reazione allergica al vaccino la posso paragonare a uno schiaffo in faccia, la polmonite da Covid-19 ad uno scontro frontale con un’altra macchina. Decidete voi cosa vale la pena di scegliere….
Sono convinto che il mondo vincerà questa battaglia che cambierà per sempre le nostre abitudini, la maniera di considerare la vita e soprattutto il bene più grande che è la salute.
Grazie a tutti medici in prima linea, onore al loro coraggio e alla loro passione unica. A chi continua a ignorare l’evidenza lascio questo aforisma che ha guidato la mia vita: “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza”. Valerio Sanguigni conclude così il suo struggente (e si spera d’insegnamento) racconto. 
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