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Trovare lavoratori per l’estate? Pure a Pomezia e Ardea è quasi impossibile. Colpa (anche) del Reddito di Cittadinanza

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Posto di salvataggio vuoto perché i giovani non cercano più lavoro

Stipendi da fame. Sottopagati. Ragazzi che mostrano storie sui social dove i datori di lavoro offrono compensi da un euro l’ora. 60 ore a settimana per 400 euro al mese, oppure 48 ore a settimana per 280 euro al mese. Commesse, spiaggini, baristi, camerieri. Cambia la mansione, ma il risultato è lo stesso. Quello che raccontano su Tik Tok, su Instagram e Facebook (anche se qui sono soprattutto i genitori a riportarlo) fa rabbrividire.

Ma ci sono anche storie un po’ diverse

Hanno offerto 800 euro al mese a mio figlio di 16 anni per fare l’apprendista. A quella cifra me lo tengo a casa sul divano”, ha scritto una mamma su un gruppo di quartiere. I commenti si sono immediatamente scatenati. Da una parte chi ha dato ragione alla genitrice: troppo bassa la paga oraria per il fanciullo e per i lavoratori in generale, anche se alla prima esperienza. Dall’altra chi obiettava che il ragazzo a 16 anni non sapeva fare nulla e andava a imparare un mestiere, cosa per cui una volta si pagava, e che c’era tempo per avere un aumento, se e quando meritato.

“Ma perché dovrei andare a lavorare per quella cifra – ha scritto infine un uomo – se è la stessa che mi dà lo Stato per stare a casa con il reddito di cittadinanza?”

La questione diventa allora più complessa. Cercare e trovare lavoro diventa più difficile.
Facendo la nostra inchiesta tra varie strutture del litorale – stabilimenti balneari, bar, ma anche un meccanico – abbiamo scoperto che il rapporto richiesta-offerta si è molto modificato nel corso degli ultimi due anni.

“Da quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza – spiega Angelo, meccanico sul lungomare di Torvaianica – non c’è più stato neanche un ragazzo che venisse per chiedermi se offrissi lavoro per l’estate o a tempo indeterminato. Prima c’era la fila, anche per solo per imparare il mestiere. Da almeno un anno e mezzo non è venuto più nessuno. E la stessa cosa la riscontrano i miei colleghi. Del resto è più comodo avere 800 euro stando a casa che venendo in officina come stagista”.

“Sembra che non abbiano più voglia di lavorare – rincara Barbara, commessa in una gelateria – Io qui ci lavoro soltanto, non ho interesse a difendere nessuno. Ma sono esterrefatta da quello che vedo e che sento. Sarà che sin da ragazzina mi sono rimboccata le maniche e ho sempre lavorato…”

Ma non è, per fortuna, sempre così. I giovani che cercano lavoro ci sono. Ecco quello che succede a Torvaianica.

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Il caso dello Sky Garden

Allo Sky Garden, come racconta Paolo, il titolare, trovare il personale per la stagione estiva non è certo un problema. “Venire a lavorare qui per i giovani è ambito. Quindi già diverse settimane prima dell’inizio della stagione abbiamo molti ragazzi che si presentano per fare i colloqui. Questo perché paghiamo il giusto e forse anche qualcosina in più. Inoltre cerchiamo di far crescere i giovani in gamba, che poi vanno a lavorare a Milano, Londra o Ibiza, dove trovano ambienti più stimolanti”.

Per Paolo è normale che i ragazzi aspirino a fare nuove esperienze. “Lavorando da noi otterranno un ottimo curriculum. Ma è giusto voler poi ambire a posti diversi. Non perché a Torvaianica ci sia qualcosa di sbagliato, ma semplicemente perché in questo luogo la possibilità di crescita è limitata. Per questo, quest’anno abbiamo dovuto rifare lo staff”.

Avete riscontrato difficoltà nel reperire personale?

“No. Invece di un bagnino ne abbiamo assunti tre per avere la tranquillità della copertura dei turni anche in caso di malattia e per garantire i dovuti riposi. Comunque, penso che se le persone vengono pagate, si trovano. Il nostro personale è tutto al di sotto dei 30 anni, ma si tratta di una politica aziendale. Abbiamo scelto di dare stipendi non solo giusti, ma anche con qualcosina in più per invogliarli a lavorare bene”.

«Non voglio perdere il Reddito di Cittadinanza»

Sulla stessa linea un altro noto imprenditore balneare di Torvaianica, che però ha trovato qualche difficoltà in più.

“A me hanno portato i curriculum e, come ogni anno, li ho visionati con attenzione. Alcuni cercavano davvero. Altri invece non avevano proprio voglia. Quelli che hanno fatto una prova – retribuitasono poi stati assunti con regolare contratto. Poi è il datore di lavoro che premia i più meritevoli con degli extra rispetto a quanto prevede il CCNL. Da noi vige la meritocrazia. Ma quello che ho notato, soprattutto quest’anno, sono stati i ragazzi che, pur essendo in possesso di altri mezzi di retribuzione, hanno cercato un lavoro, chiedendo di non essere messi in regola per non perdere il sostegno dello Stato”.

Si riferisce al reddito di cittadinanza?

“Sì. Volevano che li assumessi come guardiano notturno, dicendo che di notte ci sono meno controlli. Ovviamente ho rifiutato, perché il mio personale è tutto in regola”.

I dati sul reddito di cittadinanza: ha aiutato a trovare lavoro?

Prima di proseguire con quanto riscontrato sul territorio facciamo una piccola parentesi considerando i dati a disposizione proprio sul reddito di cittadinanza che, come visto, viene indicato da molti come la causa principale che scoraggerebbe, paradossalmente, la ricerca di un impiego nonostante i percettori abbiano l’obbligo di sottoscrivere proprio un patto per il lavoro, accettando almeno una delle tre offerte ricevute.

Più di un percettore su due lontano dal mercato del lavoro

Vediamo qualche numero. Al 31/12/21 i beneficiari del RDC non esonerati dal patto erano circa 1 milione. Tra questi il 20% aveva un rapporto di lavoro attivo, il 23% aveva avuto un contratto attivo nei 36 mesi precedenti mentre il 56% era privo di esperienza lavorativa nello stesso periodo (dati Anpal). Più di un percettore su due era quindi lontano dal mercato del lavoro. Inoltre i numeri ci dicono che, laddove presente, è stata creata un’occupazione a dir poco precaria.

Lavoro “fragile”

Relativamente alla storia lavorativa delle persone non occupate e beneficiarie del reddito di cittadinanza tenute al patto per il lavoro, su quasi 247 mila beneficiari (il 29,3% del totale) che hanno avuto almeno un contratto alle dipendenze o parasubordinato nei 36 mesi precedenti la data di osservazione (il 31/12/2021, ndr) solo il 10,8% ha lavorato per un periodo complessivo superiore ai 18 mesi nei tre anni considerati, mentre nel 34,3% dei casi gli individui hanno cumulato non più di 3 mesi di occupazione.

Se da un lato dunque il RDC non ha portato a risultati occupazionali soddisfacenti dall’altro ha favorito, è inutile nascondercelo, il lavoro sommerso, spingendo le persone, pur di mantenere il beneficio, ad evitare contratti in regola. Perché se è vero che l’occupazione di per sé non causa la perdita del beneficio in quanto il reddito di cittadinanza è calibrato sul nucleo familiare, superare la soglia oltre la quale non se ne ha più diritto è spesso facile. Da qui la scelta di lavorare in “nero”.

Quanti percepiscono il reddito di cittadinanza in Italia

Ma quante sono le persone che ad oggi beneficiano del reddito di cittadinanza? Secondo l’INPS i dati relativi ai primi tre mesi del 2022 riferiscono di 1.473.045 nuclei percettori di almeno una mensilità di Reddito o pensione di cittadinanza, con 3.267.007 persone coinvolte e un importo medio erogato a livello nazionale di 559,09 euro. Ma in che modo tutto questo si riversa sul lavoro giovanile? In alcuni casi, come abbiamo riscontrato nella nostra indagine, si sommano diversi aspetti e si preferisce talvolta rinunciare ad importi magari anche superiori rispetto a quelli percepiti con il reddito di cittadinanza ma che richiederebbero comunque un sacrificio decisamente maggiore in termini di tempo e impegno, optando piuttosto, all’occorrenza, per qualche giornata in nero.

Lo stabilimento “Ragno D’Oro”

Tornando alla nostra inchiesta a Pomezia e Ardea. Parlando con gli imprenditori ancora peggio, sotto un certo punto di vista, è andata a Roberto Tammone del Ragno D’Oro.

“Quest’anno, per la prima volta, ho avuto un po’ di difficoltà nel trovare personale. Se prima facevo la selezione tra i tanti candidati che si presentavano, adesso devo ‘accontentarmi’ di chi viene. Sono infatti sempre meno i giovani che vogliono lavorare in questo settore. Non vengono neanche a chiedere se c’è lavoro. Non c’è quindi più scelta. Adesso vengono soprattutto giovanissimi, sotto i 18 anni, mentre io preferirei assumere ragazzi più grandi”.

Come se lo spiega?

“Perché sotto la maggiore età non prendono il reddito di cittadinanza. Chi lo prende, invece, si fa due conti. Io offro circa 1.300 euro al mese per fare lo spiaggino. Loro rispondono che è poco. Oppure chiedono di non essere messi in regola, in modo da non perdere il reddito di cittadinanza. Ma ovviamente non posso farlo”.

Quindi le dicono che 1.300 euro sono pochi?

Mi hanno risposto che il lavoro è tanto e che non conviene, visto che già prendono oltre 800 euro al mese dallo Stato. Per soli 500 euro di differenza, perché loro ovviamente non calcolano quanto viene versato di contributi e Tfr, sostengono che non valga la pena lavorare. Diverso il discorso invece se si accetta di non metterli in regola. Cosa che non si può fare. Riguardo agli stipendi, noi siamo perfettamente in linea con il contratto, anzi diamo leggermente di più: non capisco quanto vorrebbero guadagnare. 2000 o 3000 euro per portare le sdraio, oltretutto appena assunti, senza neanche aver dimostrato quello che sanno fare”.

Giovani con le “spalle coperte”

Nel dibattito portato avanti in questo articolo, e soprattutto interrogandoci su quali siano veramente le intenzioni dei giovani verso il mondo del lavoro (alle condizioni attuali, “drogate” in qualche modo come visto dal RDC), non possiamo non tener conto di un fattore determinante: ovvero la permanenza dei figli all’interno della casa dei propri genitori.

Una condizione che dà sicuramente (e per fortuna si potrebbe aggiungere) più potere di scelta ai ragazzi i quali, anche non lavorando (il tasso di occupazione nella fascia 15-24 in Italia appena del 18% secondo l’ISTAT mentre la disoccupazione supera il 23%), comunque hanno un punto fermo per vivere.

Del resto, anche in questo caso, i dati non lasciano spazio all’interpretazione: in Italia non si lascia la casa di mamma e papà prima dei 31 anni per gli uomini e prima di 29 per le donne, contro la media europea di 26. La media italiana è la terza pi alta dell’UE, inferiore solo a Croazia (32) e Slovacchia (30), e comunque lontana da quella della Francia (24) o della Germania (23) e distantissima dai 17 della Svezia.

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Ristorante Pelagus, Campo Ascolano

Non registrano invece particolari problemi i titolari di un ristorante a Campo Ascolano.

“Noi siamo una realtà piccola e onestamente non abbiamo sentito questa difficoltà ma sentendo i colleghi il problema c’è effettivamente. Dal nostro punto di vista da tre stagioni abbiamo trovato dei collaboratori per i mesi estivi senza problemi particolari mentre nel resto dell’anno siamo solo noi gestori e un lavapiatti. Possiamo aggiungere però che come professionisti riceviamo spesso offerte di lavoro al di fuori della nostra attività, in tal senso il personale specializzato è molto richiesto”.

Taverna dei Rutuli, Ardea

Spostandoci ad Ardea anche qui si incontrano problemi.

“Cercare nuovo personale è diventato un vero e proprio dramma, ma non solo per l’estate è un problema di tutto l’anno ormai. Pubblichiamo annunci di lavoro ma nessuno risponde nemmeno per chiedere informazioni. In altri casi fissiamo i colloqui e poi i candidati non si presentano. Non so da cosa dipenda, se dal Reddito di Cittadinanza, dalla mancanza di voglia dei ragazzi di lavorare, o se magari preferiscono accontentarsi di quello che hanno perché tanto vivono con i genitori o con la famiglia; di fatto assumere nuove persone è diventato impossibile o quasi. Credo siano mentalità diverse, non c’è interesse verso il mondo del lavoro: se trovi una persona in gamba la trovi più grande di età, tra i giovani invece è estremamente raro”.

” Il problema delle condizioni di lavoro inadeguate? Nel nostro caso posso dire che nessuno prova nemmeno a chiedere, quindi come si fa a dire che non sono adeguate o che la paga non rispetta il lavoro richiesto? Noi del resto paghiamo tutto e regolarmente, quello che è previsto da contratto nazionale. Non a caso tutti i dipendenti che abbiamo assunto sono con noi ormai da anni. Vorrei inoltre aggiungere che un altro problema, a prescindere, è quello dell’enorme costo del lavoro cui siamo costretti a fare i conti qui in Italia. Penso sia tra i più alti in Europa. Perché non c’è solo il netto, ci sono tutta una sfilza di voci che fanno lievitare enormemente i costi per l’azienda: su uno stipendio, poniamo di 1.500 euro, non si possono pagare fino ad oltre 700 euro in più a lavoratore. Pensiamo poi ai contributi: gravano sui datori di lavoro in maniera sproporzionata rispetto a quello che percepisce effettivamente il dipendente e che inoltre non vengono nemmeno restituiti o riconosciuti in alcun modo perché destinati ad altri scopi. A questo punto sarebbe meglio sposare modelli che prevedano assicurazioni private per la sanità ed erogare più soldi al lavoratore. In ogni caso la situazione attuale così come è non è più sostenibile”.

Sora Teresa, Ardea

Anche per un altro ristorante storico di Ardea, Sora Teresa, la situazione non è più sostenibile.

“Il problema riguarda anche la nostra zona. Sicuramente ci sono ristoratori che ci marciano, ma il problema è a monte ed è impossibile non considerare l’effetto negativo causato dal reddito di cittadinanza. Inoltre, mentre la nostra generazione ha acquisito delle competenze, i ragazzi di oggi, pur non sapendo fare nulla, hanno come unica richiesta – per carità legittima – quello dello stipendio, ma non vanno oltre, non c’è interesse, né voglia di imparare a “fare qualcosa”. C’è chi ti chiede di non lavorare i festivi o di domenica, mentre io, da ragazza, lavoravo senza problemi. Sono generazioni e mentalità completamente diverse. Il paradosso è che a volte non è nemmeno un problema di stipendio perché non si trova nessuno, ma veramente nessuno, disposto al lavorare. E quando riesci ad assumere qualcuno, di fatto, devi accontentarti. Ormai chi lavora in questo settore e si sforza di portare avanti l’attività onestamente incontra enormi difficoltà: facciamo enormi sacrifici, paghiamo tasse altissime, e adesso dobbiamo faticare anche per trovare personale. E’ una situazione surreale”.

Guido (Federalberghi): «Politica dei ‘bonus’ non paga»

Ai fini della nostra indagine troviamo utile riproporre, per temi trattati, uno stralcio dell’intervista pubblicata sullo scorso numero di questo giornale con Antonio Guido, Direttore degli Hotel Enea di Pomezia e di Aprilia, nonché Capo-Delegazione di Federalberghi-Roma.

Come si spiega questa carenza di lavoratori?

«Sarebbe troppo semplice stigmatizzare questo paradosso dicendo che le persone non hanno più voglia di lavorare. Vorrei invece cercare di sviluppare una più ampia argomentazione su questo fenomeno, poiché credo che siano diverse le cause e le responsabilità di questa situazione. Innanzitutto molti, causa pandemia, sono stati collocati in cassa integrazione percependo comunque l’80% dello stipendio, altri ancora prendevano il reddito di cittadinanza ed altri ancora la disoccupazione. Ebbene, nel momento in cui le attività hanno cominciato a riprendersi, non tutti gli ex-dipendenti hanno dimostrato grande entusiasmo nel riprendere il proprio posto di lavoro, preferendo di gran lunga continuare a percepire gli aiuti dello Stato. Ecco perché sarebbe stato forse più vantaggioso per entrambi se una parte dell’ammortizzatore sociale fosse stato riconosciuto direttamente dall’azienda, che avrebbe senz’altro tenuto in servizio il proprio dipendente, garantendo così oltreché continuità alla propria attività anche al lavoratore, poiché lo dobbiamo riconoscere che stare a casa sul divano per cosi tanti mesi, gli ha fatto venire meno la voglia di rimettersi in gioco. D’altronde le attività alberghiere e di ristorazione hanno dei costi fissi molto elevati che si riflettono poi sulla busta paga. Il problema è noto ma la politica non interviene. Ma devo purtroppo anche riconoscere che il fatto di descrivere il nostro lavoro solo sotto l’aspetto del sacrificio che richiede è senz’altro molto riduttivo oltreché controproducente, perché si è vero che nelle attività ricettive e ristorative, essendo utilizzate per momenti anche di svago e di relax, molto spesso bisogna lavorare anche nei festivi e i fine settimana ma non facciamone una tragedia poiché ci sono lavori molto più pesanti e usuranti».

E’ d’accordo sul bonus di 200 Euro?

«Ribadisco che a mio parere i vari “bonus” non funzionano mai e dare qualche centinaio di euro una tantum non risolve, non tanto per il quantum (tutto aiuta) ma per il come. Chi ci rientra ci rientra, chi è fuori è fuori, magari perché oltrepassa di poche decine di euro la soglia minima. Evoca i tanto discussi 80 euro di renziana memoria. Invece per il potere di acquisto serve una legge specifica, per esempio de-fiscalizzando i premi di produzione fino ad una certa cifra. Perché se un datore di lavoro vuole riconoscere un incentivo al suo lavoratore deve pagare il 70% in più su quell’importo? Non è già sufficiente quanto verso per la sua busta paga in forme di imposte e contributi? E lo stesso vale per il dipendente che non deve essergli trattenuto dallo Stato neppure un euro del bonus aziendale: chi lavora di più e meglio, dovrebbe essere premiato ed aiutato, invece paradossalmente la produttività è disincentivata. Più lavori più paghi! Il contrario di quello che dovrebbe essere».

Stipendi bassi per i giovani

Al di là dei casi estremi come quelli citati in apertura, come rovescio della medaglia, c’è comunque da sottolineare il divario sul quale lo Stato dovrebbe intervenire, ossia quello del livello medio degli stipendi rispetto ad altri Stati europei. Perché se è vero che le retribuzioni per la fascia 18-24 anni si aggirano attorno ai 15,858 euro e sono vicini alla media dell’Unione, dall’altro sono decisamente più bassi rispetto a Germania (23,858), Francia (19,482) o Belgio (25,617).

Ecco allora che una delle soluzioni potrebbe essere quella di mettere in condizione gli imprenditori di offrire retribuzioni più alte diminuendo i costi di tutta la sfilza di voci di cui si devono far carico nei confronti dello Stato. Colmare cioè quel “gap” creatosi tra le nuove generazioni e il mondo del lavoro, invogliando i giovani a riavvicinarsi magari a mestieri per i quali non si ritiene giusto fare così tanti sacrifici a fronte di paghe comunque ritenute esigue. Per far questo si potrebbero destinare ad altro le risorse usate per il reddito di cittadinanza o per i vari bonus elargiti una tantum e questo non per motivi ideologici o politici ma perché, nei nei numeri, il sistema non ha centrato lo scopo.

La lotta tra “poveri”

La situazione insomma è davvero complessa. Sicuramente nei ragazzi è cambiata la mentalità e l’idea stessa di “carriera” o di aspettative verso il lavoro rispetto al passato. Dopodiché ognuno ha le sue ragioni, perché il costo della vita è alto e la situazione non è rapportabile a 20 o 30 anni fa. Ma non è neanche paragonabile, come fanno in molti, a quella dei paesi esteri, dove il salario minimo è molto più alto che in Italia. Perché all’estero il costo del lavoro è decisamente più basso, grazie a una pressione fiscale di gran lunga inferiore. Tra tasse di vario genere, al datore di lavoro ogni dipendente costa il doppio rispetto a quanto il lavoratore percepisce in busta paga.

Cosa che all’estero non succede. Ecco perché negli altri Stati le paghe sono più alte. Senza contare che all’estero il lavoratore deve spesso pagarsi servizi che in Italia sono pubblici – come la sanità – che qui viene finanziata con il denaro pagato anche dalle tasse che versano gli imprenditori. Insomma, ci sono pro e contro in tutte le situazioni. E, tanto per rimanere in tema, a “pagarne” le conseguenze sono, come al solito, i “piccoli”. Le piccole aziende, i piccoli imprenditori, i giovani che – al netto del cambio generazionale circa valori, aspettative, idee di carriera – cercano lavoro con uno stipendio decente, chi ha perso lavoro e non ne trova un altro se non sottopagato.

Nasce una “lotta tra poveri”, dove ci si incolpa l’uno con l’altro, senza rendersi conto che il vero colpevole è un terzo soggetto. Uno Stato che, con i costi esorbitanti del lavoro, manda in tilt l’economia, e al quale, in fondo, fa comodo che l’attenzione del problema si sposti dalle reali cause. Ma questa è un’altra storia…

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