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Roma, cronaca di una giornata allucinante al pronto soccorso

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Pronto soccorso

Lasciate ogni speranza, o voi che entrate. L’anticamera dell’inferno è qui, nel triage di questo Ospedale, uno dei più importanti presidi di Roma e del Lazio che però,  forse non a caso, non compare nella lista degli ospedali di riferimento, cioè quelli in cui si registrano le migliori performance secondo la classifica stilata da Quotidianosanità.it  

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Pronto soccorso come una bolgia infernale

Ci sono capitata per caso in questa bolgia infernale, o meglio costretta dell’impossibilità di prenotare una visita specialistica con codice B (da eseguire entro 10 giorni), poiché i 10 giorni sono scaduti proprio ieri, venerdì 17 (la data evidentemente non aiuta) e la sintomatologia persiste. Quindi, in veste di paziente, stavolta. Ciò che ha reso fin troppo facile constatare de visu le condizioni in cui versa la sanità oggi. Verosimilmente non solo qui.

Il tempo scorre lento di fronte al settore Emergenza 1, in attesa di un prelievo. E il signor Roberto – che staziona su di una barella all’ingresso del pronto soccorso proprio di fronte alle porte scorrevoli – parla con sua moglie al telefono. Una frase e un colpo di tosse, un’altra frase e un altro colpo di tosse. Inevitabile porsi delle domande, e visto che l’uomo ha un fare amichevole, al termine della conversazione mi avvicino quel tanto che basta per ascoltare dalla sua viva voce la sua storia.

“Dovevo effettuare la terza dose il 7 dicembre scorso – dichiara – ma non ho fatto in tempo. Ho avuto febbre alta e tosse violenta per diversi giorni. Avevo preso il Covid. Dal Grassi di Ostia mi hanno mandato qui. Ma nonostante gli antibiotici in vena, i miei polmoni sono pieni di focolai”.

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La testimonianza: Coronavirus contratto dopo 2 dosi di vaccino

Chiedo di confermarmi se ho capito bene, se il Coronavirus lo ha contratto dopo le prime due dosi di vaccino e se prima avesse mai avuto problemi di salute.  “Sì, sì – dice – dopo la vaccinazione. Prima stavo benissimo. Mai avuto un raffreddore”.

Roberto dorme in quella barella da due giorni. Le prime due notti da ricoverato le ha passate su una poltrona. Non proprio il massimo per lui, con quella brutta tosse, con gli spifferi e le folate di vento che arrivano a ripetizione dalla porta scorrevole.

Ma non è l’unico a vivere il suo stato di malato in questa situazione. Ci sono barelle ovunque fuori e dentro il triage. E su tre ricoveri registrati in codice rosso in pochi minuti, due sono per Covid.

L’infermiera davanti a me, protetta dallo scafandro, si sbraccia facendo segnali ai colleghi del triage, aperto sulla zona di “massima sicurezza”, che pare un lazzaretto. L’età media dei ricoverati all’interno si aggira intorno agli 80 anni. Ci sono malati di Alzheimer, nudi con il pannolone, che urlano, poveri corpi, volti scarni che gemono.

Malati di Covid divisi dagli altri con un séparé

Poco distante giace una giovane donna appena arrivata. “100% positiva”, annuncia l’infermiera agli operatori del triage.  Ci divide un misero séparé. Le sirene annunciano altre emergenze. All’esterno hanno già formato una fila.

“Un medico per 40 pazienti”, dice Roberto scuotendo la testa. Troppi codici rossi, mentre un infermiere che deve fare la notte si dichiara febbricitante.

Mi guardo intorno. La mia Tac può attendere. Mi rivolgerò a una struttura privata, come ormai ci hanno abituato a fare.

Ci sono pazienti che hanno emergenze ben più gravi della mia. Le mie analisi, dopo 8 ore d’attesa, finalmente sono arrivate. Firmo le dimissioni e – col cuore stretto in un pugno e un gran senso di rabbia misto a impotenza – lascio alle mie spalle quella maledetta porta scorrevole dove possono entrare tutti, ma proprio tutti.

Rosanna Sabella

 

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