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“ROMANZO DI UNA STRAGE”: FA DISCUTERE IL FILM SUL MASSACRO DI PIAZZA FONTANA

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Ci voleva coraggio, per fare questo film. Per scriverlo, produrlo e proporlo in un paese, il nostro, che vive un periodo di sommerso disincanto politico e civile, e che si rivede sullo schermo raccontato in un modo che sembra preistoria, in quel 1969, così ideologizzato e pieno di estremismi opposti. I giovani, quelli che non c’erano in quegli anni, quasi stenteranno a riconoscere quei fatti come cronaca, tanto era diverso il Paese da quello che è adesso. Ed è qui che sta il coraggio di Marco Tullio Giordana, e dei produttori di Cattleya, quello di raccontare senza romanzare, con un crogiuolo di fatti circostanziati, a restituire una memoria storica e una dignità ai silenzi e ai soprusi che le tante vittime delle “stragi di stato” hanno subito in quegli anni, ed a cui, con una toccante didascalia iniziale il film è dedicato. Del resto l’autore ci ha abituati a percorrere la storia del dopoguerra italiano con un dettaglio quasi scientifico, ma con il tocco dell’artista, che sa anche umanizzare all’estremo i personaggi che per noi sono stati soltanto fotografie di cronaca, fin dai tempi dei “Cento passi” o del bellissimo “Pasolini, un delitto italiano”, passando per “La meglio gioventù”. Ma in “Romanzo di una strage” il percorso è più intimo, vissuto non dei proclami ma dei tormenti interiori dei tre protagonisti, Aldo Moro, Luigi Calabresi, e Giuseppe Pinelli, personaggi storici loro malgrado, eroi controversi che la storia e la malvagità di quegli anni bui ha portato violentemente via dalla vita. La struttura del film si srotola tra l’autunno 1969, con la morte dell’agente di polizia Antonio Annarumma durante una manifestazione, e il maggio 1972 con l’omicidio di Calabresi. È questo il periodo in cui possiamo dire che per l’Italia Repubblicana tutto ha inizio e tutto finisce; inizia il periodo della politica oscura e violenta, intrisa di nefasti “poteri forti” e quindi finisce l’epopea, il sogno di costruire un paese felice e libero, dove tutti possono vivere serenamente. Quella bomba, alle 16:37 del 12 Dicembre del 1969 tutto ferma, ed in quella voragine al centro del pavimento della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana ci cadiamo tutti insieme a quei poveri 17 morti. Oltre la storia, però, c’è l’opera cinematografica, splendida. Una ricostruzione ambientale perfetta, e una sfilza di attori da applausi, non solo nei protagonisti di cui parleremo ma anche e soprattutto nelle decine di personaggi di contorno tanto da non riuscire ad indicare qualche eccellenza, tanto sono bravi. Possiamo citarne solo alcuni, tra questi Giorgio Tirabassi, professore occulto dei servizi segreti, Francesco Salvi nel ruolo del Tassista Rolandi, Luigi Lo Cascio bravissimo nel ruolo del Giudice Paolillo, Benedetta Buccellato nel ruolo della scrittrice Camilla Cederna. Dicevamo quindi dei protagonisti di questo film corale, in cui si percepisce la partecipazione oltre la recitazione, per Valerio Mastandrea, dolente e sofferto Commissario Calabresi, capro espiatorio da dare in pasto come vittima sacrificale all’estremismo di Sinistra, e per Fabrizio Gifuni, che ci restituisce la figura di Aldo Moro come precursore quasi veggente dei pericoli che il paese e lui stesso avrebbe attraversato. Bravissima poi Michela Cescon nel ruolo complicato e dignitoso della Signora Pinelli, mentre invece presenza stonata ci è sembrata Laura Chiatti, nella parte di Gemma Calabresi, un po’ troppo didascalica e forse oscurata da Mastandrea. E poi, Pier Francesco Favino. L’Anarchico Pinelli, l’uomo che possiamo considerare la diciottesima vittima di quella bomba infame, a cui l’attore romano dedica una interpretazione che non ha aggettivi. Sulla bravura di Favino ci siamo già espressi, e appare quasi stucchevole rimarcarla, ma ci ha colpito in questa opera il suo costante tentativo di restituirci l’uomo più del personaggio, in un virtuosismo che riteniamo non comune. In una intervista radiofonica, lo stesso Favino ha raccontato di come per studiare il personaggio sia stato ospite insieme a Michela Cescon della Signora Pinelli, e delle figlie, assorbendo dai racconti, dalle foto di famiglia, dai luoghi e dagli oggetti, le movenze, i modi di dire, la quotidianità di quell’uomo buono e idealista, vittima inconsapevole e maledetta di una “caduta accidentale” che ha cambiato la storia dell’Italia. Un omaggio sublime all’uomo Pinelli, doveroso seppur tardivo. Il film, come era prevedibile, ha acceso dibattiti poco “cinematografici”, tra chi a vario titolo si è sentito oltraggiato dalla ricostruzione. Adriano Sofri, che per l’omicidio Calabresi ha scontato come mandante 22 anni di carcere, ha polemizzato ferocemente con gli autori, in quanto secondo la sua visione il sospetto del “tutti colpevoli, nessun colpevole” si insinua ed è esplicitato anzi nel finale del film. Pur omaggiando di grande acume il giornalista Sofri, non crediamo sia compito suo però, proprio perché condannato per l’omicidio di Calabresi, rendere giudizio sui fatti. Probabilmente ha pesato nella sua rabbiosa dichiarazione, la romantica ricostruzione che Tullio Giordana fa della figura del Commissario, che chiaramente si abbatte su di lui e sui suoi compagni che all’indomani dell’omicidio sulle pagine di Lotta Continua così si esprimevano: “Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole. Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte”. Quando si fanno film di questo tipo, l’enfasi e la didascalizzazione sono i pericoli che si nascondono, quando si narra una storia che è ancora cronaca, e cronaca di una strage senza colpevoli. Ma Marco Tullio Giordana riesce nell’impresa, facendo non un documentario ma un grande film colorato di cronaca e di poesia, un film sulla nostra storia, che entrerà nella storia.

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