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Mafia a Roma, chi ‘comanda’ oggi nella Capitale: intervista al Direttore della DIA

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Maurizio Vallore - Direttore DIA - Direzione investigativa antimafia

Mesi passati davanti ai computer, ad ascoltare voci intercettate, a decifrare codici, a studiare movimenti sospetti. E poi, all’improvviso, si passa all’azione, per cogliere di sorpresa il soggetto –criminali d’alto profilo, latitanti inseriti nella lista dei più pericolosi d’Italia e d’Europa, assassini e narcotrafficanti, tutti legati alla mafia – e assicurarlo alla giustizia. Come nel caso di Gioacchino Gammino, arrestato dopo una latitanza di quasi 20 anni.

Loro sono gli uomini della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, attualmente guidata dal Dirigente Generale di Pubblica Sicurezza Maurizio Vallone. I migliori esponenti di polizia, carabinieri e guardia di finanza convergono qui, per una continua battaglia, su tutti i fronti, contro le organizzazioni mafiose. L’arresto di Gammino è solo l’ultima delle brillanti operazioni svolte dalla DIA, una struttura interforze che fa da scuola ad altre polizie europee.

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Ne parliamo con Direttore della DIA, dott. Maurizio Vallone

“Eravamo sulle sue tracce da due anni: è stata un’indagine classica, abbiamo studiato i fascicoli di quando Gammino era operativo, esaminando i soggetti che gli erano vicini. Proprio grazie a loro siamo arrivati in Spagna, dove c’era un discendente dei suoi accoliti. Concentrandoci su questo personaggio siamo riusciti ad arrestare, con la collaborazione della polizia spagnola, il latitante, uno dei più pericolosi d’Europa”.

Lei, prima di arrivare al vertice della DIA, si è formato come investigatore facendo esperienza “sulla strada”. Che idea si è fatto della mafia e del modo di combatterla?

“Si cambia prospettiva. 30 anni fa si andava a seguire la singola piccola organizzazione, la singola piazza di spaccio o il singolo latitante, oggi si guardano le cose da una prospettiva più ampia. Abbiamo compreso che le mafie non sono solo quelle uccidono il singolo avversario o il singolo avversario o il singolo poliziotto, ma hanno una struttura di vertice importante, una stanza di compensazione che prende decisioni di massimo livello. Il nostro lavoro adesso è quello di seguire i soldi, i flussi finanziari, investimenti nelle società e nei mercati internazionali, perché solo così – togliendo soldi alle organizzazioni mafiose – possiamo togliere loro il potere”.

Le infiltrazioni mafiose

La DIA è sempre in prima linea nella lotta alla mafia. Quali sono le organizzazioni mafiose che comandano su Roma e la sua provincia?

“C’è molta differenza tra la mafia al sud rispetto a quella che si può trovare qui o al nord. Innanzi tutto bisogna sfatare il mito che oltrepassata la Campania non sia presente: ci sono molti più locali gestiti dalla ‘ndrangheta nel nord Italia che in Calabria. Le infiltrazioni della camorra e della mafia in generale da Roma in su sono molto più di quel che si pensi”.

Il tipo di organizzazione mafiosa che governa Roma non è come quello di Napoli, dove al momento a comandare sono principalmente due potentissimi clan camorristici che si spartiscono i territori. Uno dei due gruppi è quello dei cosiddetti “magliari”, i “maghi” del falso, che con il loro business gestiscono affari di centinaia di milioni di euro l’anno: la ramificazione degli affari del clan – cresciuta a dismisura con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, con una speculazione che li portò ad impadronirsi di hotel, supermercati, ristoranti e locali in tutto il mondo – ha fatto sì che oggi i loro contatti siano ovunque. Questo rende più difficili le indagini da parte degli inquirenti italiani su due fronti: i soldi provenienti dai traffici illeciti “spariscono”, dirottati verso conti esteri attraverso una serie di giri, per poi tornare in parte in Italia “puliti”, sotto forma di fondi di investimento, mentre i latitanti riescono ad avere una solida copertura in paesi stranieri grazie ai contatti nei vari Stati.

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L’arrivo della droga dal Sud America

Abbiamo visto come si ripuliscono i soldi. Ma come arriva la droga in Italia?

“Principalmente attraverso megacontainer provenienti dalla Colombia: la prima tappa è il Venezuela, poi da lì, tramite altri paesi del Sud America arrivano in Africa, preferibilmente passando dalla Guinea Bissau, dove vengono cambiati completamente i codici ai container. Se non viene messo un GPS alla partenza, il carico diventa irrintracciabile. Da lì i container vengono smistati per buona parte verso l’Est Europa. Arrivano magari in transhipping a Gioia Tauro, ma non si fermano se non in piccolissima parte: non si fermano quindi in Italia, restando così anonimi per noi, e proseguono invece verso la Croazia e i Paesi Balcanici, dove vengono stoccati migliaia e migliaia di chili di droga che successivamente ripartono su camion verso il Nord Europa e verso l’Italia. È la rotta più affidabile e tranquilla per i narcotrafficanti. Dalla Spagna, molto utilizzata un tempo, arriva invece ormai pochissima droga. Da noi utilizzano per gli sbarchi i velieri, molto più sicuri, capaci di trasportare 1000 o 2000 chili di hashish. Ma attenzione: non si tratta dello stesso hashish degli anni ’80 o ’90: il principio attivo che c’è oggi, il taglio che viene fatto, è 100 volte superiore a quello che era un tempo. Un tempo il principio attivo era di 0,1 mentre adesso è di 10 ed è micidiale. Questo significa che il danno celebrale di uno spinello è 100 volte superiore. Sono poi crollati tutti i tabù: adesso l’eroina, che magari una volta i giovani potevano temere, si sniffa, quindi anche questa è diventata di più facile utilizzo”.

Gli omicidi di Fabrizio Piscitelli e Shehaj Selavdi

Torniamo ai fatti di cronaca: su Roma qual è l’ipotesi di spartizione dei territori, soprattutto se si segue la scia di sangue che ha segnato gli ultimi due anni, con gli omicidi di Fabrizio Piscitelli – alias Diabolik – di “Passerotto” Shehaj Selavdi e di Adrian Pascu, crivellato da 3 colpi di pistola il 4 dicembre a Primavalle?

“Gli omicidi sono sempre segnali di assestamenti e nuovi equilibri. A ogni omicidio non è mai seguita una guerra: questo significa che l’omicidio serviva a togliere di mezzo un soggetto che era diventato in qualche modo scomodo per un’intera organizzazione e per un’intera filiera, perché se ci fosse stato un vero contrasto tra gruppi ci sarebbe stata una ritorsione immediata. Il fatto che ci sia un omicidio oggi e il successivo dopo 6 mesi o un anno indica invece che non si tratta di una guerra tra clan, ma di assestamenti e di eliminazioni selettive di soggetti che hanno creato problemi, hanno cambiato fornitore o non hanno rispettato le regole. Non è come a Napoli o in Calabria, dove ci sono dei grandi gruppi che controllano il territorio: qui ci sono tanti piccoli clan che convivono e si spartiscono gli spazi, una sorta di hub commerciale dove convergono le diverse organizzazioni che devono convivere attraverso equilibri delicati”.

È sempre stato così?

“Roma è sempre stata un crocevia di criminalità organizzata: già dagli anni ’90 era la città di elezione di Vito Ciancimino, uomo di Cosa Nostra. La Banda della Magliana aveva rapporti strettissimi sia con la Camorra che con la ‘Ndrangheta e con Cosa Nostra. Ci sono stati omicidi, auto bombe, hanno fatto saltare in aria avversari della nuova famiglia, persone vicine a Raffaele Cutulo. Roma è sempre stata una Capitale che godeva di grande attrazione da parte delle organizzazioni mafiose, anche perché, essendo una grande metropoli, ha in rapporto una elevatissima quantità di assuntori di sostanze stupefacenti e quindi una eccezionale capacità di mercato. Vive di una criminalità locale sia organizzata che non organizzata, dedita allo spaccio, diretto ma anche virtuale, visto che ormai la droga viene venduta pure online attraverso i social e consegnata direttamente a casa attraverso servizi di delivery, magari insieme alla pizza. Ma al di sopra di queste realtà locali ci sono le grandi organizzazioni storiche che controllano i grandi traffici della realtà romana e quando questi soggetti non rispondono più alle loro esigenze vengono eliminati per lasciare posto a persone più affidabili”.

La mafia Albanese

Ma l’arrivo degli stranieri, come gli albanesi, potrebbe aver rotto gli equilibri tra i clan mafiosi italiani che governano la città?

“Nei primi tempi ci sono state delle contrapposizioni tra italiani e stranieri, perché arrivarono in Italia tentando di riproporre quelli che erano gli schemi di casa loro, provocando la reazione degli autoctoni. Oggi invece abbiamo una dinamica completamente diversa: queste organizzazioni straniere sono vicine e funzionali alle grandi organizzazioni mafiose nostrane. Non vanno più in contrapposizione, ma gli italiani delegano agli stranieri parte degli affari, come l’importazione degli stupefacenti leggeri – hashish e marijuana – il controllo di alcune attività e la parte più violenta dei loro compiti per non sporcarsi le mani, utilizzando così persone che oggi sono in Italia e domani scompaiono”.

Qual è la sua chiave di lettura dell’omicidio di Piscitelli?

“Il connubio tra criminalità e calcio purtroppo ormai è accertato: le infiltrazioni mafiose nelle curve sono all’ordine del giorno. Il calcio è uno sport dove girano tantissimi soldi e tantissima notorietà. Ci sono poi tanti mafiosi a cui piace questo tipo di mondo. Spacciare nella curva significa poter piazzare decine e decine di grammi ogni domenica allo stadio, senza contare che la curva è un ottimo bacino di reclutamento. A Napoli qualche anno fa, in piena guerra di camorra, si dividevano le curve per lo spaccio”.

E proprio Piscitelli era legato a una famiglia camorristica, i Senese, che a Roma aveva preso una buona porzione di territorio. Pensa che la protezione dei Senese fosse venuta meno, quando è stato ucciso?

“Non voglio entrare in un’indagine che sta svolgendo egregiamente la Squadra Mobile, ma penso che in quel momento, non essendoci state reazioni, Piscitelli poteva essere sacrificabile”.

DIA - Direzione investigativa antimafia
DIA – Direzione investigativa antimafia

 

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